Incontro con una città da lasciare

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Diario di apprendistato dell’uso di Trieste, città scoperta quasi per caso

di Pierluigi Sabatti

 

È un libro molto particolare e intrigante Lasciare Trieste di Christophe Palomar. Dopo il romanzo di esordio Frieda, un’educazione sentimentale del ‘900, Palomar cambia modo di raccontare, cambia linguaggio, e propone un libro indefinibile perché non è un romanzo, non è un reportage, non è una piece teatrale, ma è un po’tutto questo grazie a una narrazione fatta di immagini, lampi di flash, pensieri, monologhi interiori, stimoli per la riflessione.

Quello che colpisce è il dialogo che l’autore instaura con il lettore. Sembra di trovarsi a tu per tu con lui, ecco l’effetto teatrale, fisico, che questa scrittura trasmette. Non da subito, perché all’inizio, nel capitolo Il viaggio parla di sé in terza persona e così descrive il protagonista, che è lui stesso: “Sono anni che non viaggia in treno, anni che mastica i modi brutali del trasporto aereo che consuma tempo e spazio senza restituirli mai. Perché l’aereo non tratta il viaggio, semplicemente lo cancella. L’aereo riempie il vuoto come uno scenografo: su, giù, vassoi, filmetti e riviste, l’aria sempre uguale, la luce sempre uguale, tutto qui”.

L’autore è un manager che si sposta in continuazione da diciasette anni e il caso lo fa approdare a Trieste. Nel capitolo Primavera, che è la stagione dello sbarco in città, abbandona la terza persona e comincia a raccontarsi, con parsimonia, descrivendo il rapporto con la casa che ha preso in affitto, come l’ha ammobiliata, o meglio come ha aggiunto alcune cose sue a quello che apparteneva “al signore” che ci aveva vissuto prima di lui, come organizza la quotidianità, si stira pure le camicie. Poi si lascia andare a maggiori confidenze quando afferma di essere arrivato a Trieste “in fuga da tutto e da tutti”. Non approfondisce le motivazioni di questa fuga perché le spiega con con l’inquietudine che caratterizza l’autore-personaggio.

Il dialogo col lettore prosegue incalzante negli altri capitoli in cui si articola il racconto quando propone le immagini che egli si forma di Trieste caratterizzata dal marmo bianco e non dal mare “che non è azzurro”. Trieste non è mediterranea, è nordica.

La città comincia ad incuriosirlo, ad attrarlo e, soprattutto, lo induce alla scrittura e arriva a raccontare come il libro si sta sviluppando, come scriva, corregga, riscriva quasi a chiedere al lettore una conferma se è riuscito a fargli capire che cosa prova per questa città che poi è la vera protagonista. Non ci sono personaggi in prima fila sulla scena, salvo ovviamente l’autore che racconta di sé attraverso le esperienza di vita che svela ai lettori, ma c’è la città, Trieste, che è sempre più presente mentre gli esseri umani che la popolano rimangono sullo sfondo: “Dopo aver subìto la storia e la geografia, l’alchimia dolce e anche quella amara delle lingue e dei popoli, Trieste è stata successivamente conquistatrice, conquistata, poi umiliata, depredata e infine messa via fra i ricordi di altri. Taluni, dandola per dispersa, ne parlano addirittura come fosse una Babilonia, una Samarcanda austro-ungarica. Ma esiste davvero? E quale sarebbe il suo nome attuale? Se Trieste non è più del tutto viva, non è ancora deceduta. Più che a un cadavere o a un ricordo, assomiglia a uno di quei legumi che ogni tanto vengono ritrovati nei sarcofagi egizi. Qualcosa ancora pulsa nelle pieghe della sua anima, come una brezza, un soffio che restituisce al villeggiante attento”.

La scoperta della città passa attraverso la Biblioteca civica e le librerie. Non poteva essere altrimenti. E in Biblioteca scopre le “storie divise” di questa città, che dà versioni diverse di un medesimo fatto, oppure racconta lo stesso fatto con linguaggi diversi.

Esplorando librerie e biblioteche e andando anche a rileggere i libri che si è portato, in pratica il suo unico vero bagaglio, incontra gli scrittori, sia i grandi, sia i minori. Nel libro gli “incontri” sono molteplici anche con i contemporanei: “Penso alla solitudine opaca che avvolge i letterati di Trieste. Penso al deprimente senso di fallimento che investe lo studente Freud mentre è qui a completare la sua tesi. Penso all’isolamento famelico di Joyce. A quello linguistico e politico di Pahor. E a quello, molto più agiato ma forse più profondo, di Svevo. Penso allo sradicamento di Tomizza, alla solitudine dettata dall’esilio e poi dalla malattia, Penso persino ai due grandi maestri della solitudine e della disperazione che con Trieste ebbero anche loro a che fare, ovvero Stendhal, console qui per tre anni, e Kafka, impiegato nella cugina Praga delle Assicurazioni Generali”.

I capitoli del libro sono: Il viaggio, cioè l’arrivo in questa città “dov’è difficile arrivare e anche partire”; La primavera, L’estate, L’autunno e L’inverno.

Le descrizioni della città nelle varie stagioni sono tra le pagine, secondo me, più riuscite, perché Trieste in primavera con i suoi cieli velati invita a percorrerla e a scoprirne i diversi aspetti e le diverse prospettive da cui cogliere “stracci” di mare; d’estate anche se non è mediterranea neanche sotto la canicola, c’è qualcosa che lo fa pensare Orano, la città algerina di cui è originaria una parte della sua famiglia. Città, non lo dice, fondata dagli Andalusi che lasciavano la Spagna, chiudendo un capitolo meraviglioso della storia umana, e non è un caso.

L’autunno di Trieste si apre con la Barcolana che è il tripudio delle vele nel golfo, della navigazione, del dna marinaro della città, poi continua con giornate uggiose che la fanno sembrare Amsterdam, in inverno diventa Mosca, Budapest con la gente chiusa nei palazzi e nei caffè.

Ma queste mutazioni non sono soltanto stagionali, quando percorre la sopraelevata alcuni angoli del porto nuovo gli sembrano Brooklyn.

Una molteplicità di situazioni che cambiano il sentire dell’autore-protagonista: Da quando sono a Trieste, provo un certo senso di estraneità, nel senso che vedo le cose con aria distaccata, con interesse intellettuale. Da allora, questo stato si è diffuso a tutto ciò che mi circonda, a tutto ciò che mi riguarda. Non è stanchezza, non è malinconia e non è nemmeno tristezza… Sarà che comincio a somigliare a questa città. Sarà che, a forza di osservarla dall’alto del mio terrazzo, di annusarla mentre ci incontriamo per strada io e lei, sono finito dentro di lei come ci s’imbatte in Roth o in Canetti.

Non ci avevo mai pensato, ma il legame con questa città è molto più forte di quanto avrei immaginato poco tempo fa, poche pagine fa”.

In inverno l’autore-protagonista abbandonerà Trieste, città che definisce “mitica”perché gli ha inoculato il male di scrivere. A Trieste è diventato uno scrittore, sia che lo faccia nei ritagli di tempo che gli lascia il concitato mestiere di manager, sia che prosegua vivendo della scrittura. La strada è tracciata e magari lo riporterà a Trieste.

 

Copertina:

 

Christophe Palomar

Lasciare Trieste

Pendragon, Bologna 2016

  1. 117, euro 13,00