INEDITI – LA STANZA DEI SOGGIORNI: la micronarrazione di Luciano Morandini

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LA STANZA DEI SOGGIORNI

La micronarrazione di Luciano Morandini

di Pericle Camuffo

Scritti tra aprile del 1987 e novembre del 1989, i quattordici racconti de La stanza dei soggiorni rendono con chiarezza il lavoro che Luciano Morandini sta facendo, tra il 1984 ed il 1994, per “liberarsi della poesia”, per “cambiare aria e paesaggi”, come confessa nella sua autobiografia intellettuale Promemoria friulano (1998). Collocati tra le sue due opere più propriamente narrative, San Giorgio e il drago (1984) e Lo sfrido (1989), rappresentano però un’opera strutturalmente distinta ed autonoma all’interno della produzione in prosa di Morandini. Non è un caso, infatti, che l’autore l’abbia preparata con cura, stabilendo addirittura alcune caratteristiche tipografiche, dal tipo e numero del carattere da utilizzare per titoli e sottotitoli, al formato del volume. Autonomia assicurata non tanto o non solo dai temi affrontati ed elaborati al suo interno, quanto piuttosto dalla forma utilizzata, quella del racconto breve, del microracconto, della “narrazione sinottica” che, come avverte Morandini stesso nell’introduzione ad un libro dell’amico fotografo Gianni Borghesan, rifacendosi alle considerazioni di Lamberto Pignotti, consente di “afferrare e comparare anche con l’occhio” e che, da qualche anno, lo affascina, probabilmente perché più vicina all’incisività ed all’essenzialità della poesia che rimane comunque lo strumento d’indagine e di comunicazione che gli appartiene in maniera più intima e profonda e che non abbandona del tutto neanche nel decennio delle sue “esperienze narrative”, nel quale pubblica le raccolte Infrantume (1986) e L’albero di Mantes (1990).

Purtroppo, come sempre accade nei casi di ritrovamenti d’archivio, sulle motivazioni per le quali La stanza dei soggiorni sia rimasta inedita e sul perché Morandini abbia invece preferito pubblicare singolarmente solo alcuni racconti, peraltro in luoghi e tempi diversi, si possono solo azzardare delle ipotesi.

Al di là delle considerazioni di carattere puramente estetico, sulla riuscita o meno dei racconti, per esempio, o sulla capacità di gestire più o meno bene questa forma brevissima di narrazione, inevitabilmente soggettive e “situate”, e di quelle di carattere più strettamente editoriale, come la commerciabilità di un volume del genere all’interno della letteratura italiana dei primi anni Novanta, penso che le motivazioni vadano ricercate e fissate sul carico d’esistenza che questi racconti attraversano, filtrandolo, sistemandolo, cercando di dargli un senso, sul loro essere attrezzi d’intervento ai quali Morandini si affida, pur nella loro novità, per salvarsi, perché quelli che ha a disposizione, quelli della poesia, non gli sono più utili, non agiscono e non reagiscono in maniera sostanziale ed adeguata a ciò che si trova a vivere.

I racconti possono infatti essere letti come la narrazione di un percorso che attraversa una sofferenza disperata e disperante la quale, se ha la sua origine nella constatazione del fallimento degli ideali politici e sociali degli anni Sessanta e Settanta, con il conseguente smarrimento da parte dell’intellettuale del proprio ruolo, trova nella morte della moglie Elsa Buiese, avvenuta alla fine dell’estate del 1987 dopo una lunga malattia, il suo centro di aggregazione e di germinazione più acuta e penetrante. È una morte che entra con prepotenza nella vita dell’autore, smantellando certezze, incrinando fiducie, spezzettando la solidità del suo essere soggetto forte, in qualche modo possessore e gestore di se stesso. È una morte che apre dubbi, che ha un’azione interrogante, che scopre spazi di precarietà, che innesca la consapevolezza dell’assurdo camusiano, che schiaccia in un angolo e deprime, risucchia, pietrifica.

In questo senso, è centrale Al Roussy, racconto che narra il viaggio, visto e vissuto dalla prospettiva di una donna malata, verso un ospedale di Parigi per sottoporsi ad un intervento che forse le salverà la vita, ma soprattutto narra il viaggio di una mente all’interno di se stessa, di una donna all’interno di se stessa dove l’essersi scoperta gravemente malata, ha cambiato di colpo ed in modo irreversibile la sua percezione della realtà, la percezione di se stessa e degli altri, mettendola di fronte alla caustica coscienza della morte e di conseguenza dell’assurdità di ogni esistenza. Questa chiarezza improvvisa, epifanica, costringe la protagonista, mentre osserva gli altri passeggeri dell’aereo che la sta portando in Francia sfogliare riviste, fumare, vivere, insomma, come se la morte non esistesse, a questa constatazione: “Non ci si stupirà mai abbastanza del fatto che tutti quanti viviamo come se nessuno sapesse”. Nella versione dattiloscritta, Morandini aveva segnalato in nota i riferimenti bibliografici di questa e delle altre citazioni sparse nel testo, riferimenti che nella versione pubblicata sono scomparsi. A parte una di esse, presa da I fiori del male di Baudelaire, le altre tre sono estratte da La peste e da Il mito di Sisifo di Albert Camus. Ed è proprio quest’ultimo libro, lavoro in cui, come noto, Camus meglio affronta e sviluppa la riflessione sull’assurdità dell’esistenza scoperta come “concatenazione inutile di eventi inutili”, che diventa per Morandini lente attraverso cui osservare se stesso e il mondo, se stesso nel mondo. L’esperienza dell’assurdo è zona filosofica che Morandini, in questi racconti, frequenta con precisione e che diviene foschia di fondo distesa sull’intera raccolta, a darne la tinta, lo spessore, la tessitura profonda.

Ma come ci si salva da questa “vita assurda che dava e toglieva e caso”? Come vivere umanamente in un mondo in cui “dal momento in cui viene riconosciuto, l’assurdo diventa la più straziante di tutte le passioni”? Come si fa non solo ad immaginare, come suggeriva Camus, ma ad essere “Sisifo felice”?

Per lo scrittore francese, l’assurdo non è luogo di permanenza, di disperazione paralizzante, di nichilistica immobilità, ma di transito verso la “rivolta”. Scartate le conclusioni più logiche della constatazione dell’assurdità dell’esistenza – il suicidio e la speranza – l’unica azione praticabile è la persistenza nell’assurdità, in una vita della quale il senso non può essere riconosciuto, della quale va stabilita la mancanza di un fine ultimo, di uno scopo e che deve essere vissuta rinunciando ad ogni illusione, perché, e sta qui la conclusione di Camus, “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”.

La “rivolta” messa in atto e narrata da Morandini ne La stanza dei soggiorni, va in questa direzione. Come il Sisifo camusiano che trae la sua “felicità” dal percorso, dal cammino, e non dal risultato che inevitabilmente lo attende alla fine della salita, anche i personaggi di questi racconti spezzano l’isolamento esistenziale ed emotivo in cui l’assurdo li aveva rinchiusi, o nel quale si erano rinchiusi per erigere un’ultima e desolata difesa, aprendosi alla vita, facendosi attraversare dalla vita, permettendo che questa forzi in qualche modo le porte della “tana” kafkiana in cui avevano recluso se stessi e il proprio mondo. Quasi a dire che per vivere l’assurdo delle nostre esistenze sia necessario un indebolimento, una certa dose non calcolata di rischio, una messa in atto della possibilità di perdere il controllo, di farsi violare, di stupirsi. Ecco, allora, la memoria che improvvisamente spalanca e ricostruisce spazi di felicità, riattiva la gioia di vivere, arriva come “colombo planante”, che è richiamo della vita alla vita, che mi rivela a me stesso (La lettera, Al Roussy); l’intrusione dell’altro che riattiva la dimensione dell’ascolto, dell’ospitalità, dell’incontro, della “bellezza dialogica” (Il marciapiede, Sette giorni una notte), che spinge a compiere lo sforzo di passare dalla distanza del teleobiettivo alla prossimità del “primo piano” (Occhio magico); le sensazioni che aprono fratture nel secco e crudo giustapporsi dei pensieri, che diventano cifra di un esistere disposto al mondo, corporalmente compromesso con il mondo, che sono “patrimonio” da salvaguardare (La visita, Sensazioni). E tutto questo può avvenire solo di fronte da un mutamento della direzione dello sguardo, o meglio, dell’azione stessa del guardare che deve scoprire in sé l’azione dell’essere guardato, dagli altri, dalle cose, dal mondo. Si tratta dunque di acconsentire che all’interno del proprio sguardo sul mondo si inserisca la passività dell’essere guardato: insomma, dall’essere sempre e solo soggetto, all’essere anche oggetto; dall’essere sempre agente, all’essere anche paziente. Questo abbassamento del volume del nostro guardare consente l’intrusione nel nostro occhio, nella nostra percezione, di tutto ciò che prima, con gli occhi fissi alla cima della collina, era solo scomodo e faticoso percorso da esaurire il più in fretta possibile: le voci del mondo, di ogni granello di polvere, di ogni fiore, di ogni pelle sfiorata, di quelle piccole cose, insomma, che fanno sì che anche se la salita in sé è inutile ed il masso che spingiamo rotolerà di nuovo e sempre a valle, almeno quel salire ci riempia il cuore.

Morandini, in questo suo cammino fra le crudezze dell’assurdo, trova la forza dell’indebolimento e si fa incantare dalle piccole cose che gli “sembravano assorbire il cuore del tutto ed esprimerlo come meglio non si poteva” e ne fissa la voce nelle istantanee dei suoi microracconti che non a caso sono, come recita il sottotitolo della raccolta, di “storia piccola”, di “piccole gioie, piccole storie, piccoli uomini”.

Il confronto serrato con l’ “assurdo” e la conseguente messa in opera di strategie di praticabilità e di resistenza creativa che costituiscono l’intelaiatura de La stanza dei soggiorni, sono del tutto assenti nei pochi e nuovi racconti degli anni Novanta. Ciò accade presumibilmente perché il carico d’esistenza da cui derivano ha esaurito in essi la sua aggressività ed ha trovato una risoluzione più ampia e strutturata ne Lo sfrido, che aggrega nella forma del romanzo breve il percorso precedentemente affrontato nei frammenti della Stanza dei soggiorni, e prima ancora nel racconto La mosca (non è un caso che Morandini lo usi, con piccole modifiche, per aprire il volume), e nel ritorno alla poesia de L’albero di Mantes, interamente dedicato alla moglie da poco scomparsa. Da qui in poi, Morandini abbandona la narrazione per microracconti, ed in questo senso è emblematico il fatto che Al Roussy diventi Il viaggio, tradotto ed adattato in versi ne Il filo dei giorni (2009), e di conseguenza abbandoni anche il progetto editoriale de La stanza dei soggiorni.

Nel loro insieme, questi racconti di Luciano Morandini si collocano agevolmente all’interno delle coordinate critiche tracciate da Giulio Ferroni in un volumetto uscito qualche anno fa dove, nella sua analisi sulla “letteratura negli anni zero”, sosteneva che, anziché il romanzo, forma di scrittura “sempre più inessenziale, sempre più inadatta a corrodere criticamente il presente, a tracciare un segno intenso sulla confusione del mondo”, sia la “forma breve del racconto”, quella “oggi più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva”

Il racconto, dunque, meglio se breve, rappresenta per Ferroni, e non solo per lui, lo strumento più funzionale ad una “letteratura che renda conto del mondo, di questo mondo così intricato, così minaccioso, così in pericolo”, ad una letteratura che sia sforzo critico, opposizione, resistenza, impegno e che il critico romano definisce “della responsabilità e del destino”.

E sta forse proprio qui, in questa collocazione, tutta l’attualità della micronarrazione morandiniana e la necessità che questa raccolta venga finalmente pubblicata nella sua interezza.

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La Stanza dei soggiorni (microracconti di storia piccola) costituisce la terza cartella del fascicolo 1 della serie VII dell’archivio Morandini conservato presso gli eredi. È formata da 14 racconti dattiloscritti, composti tra aprile 1987 e novembre 1989, per un totale di 58 carte scritte sul recto, di cui 56 numerate in alto a destra in numeri romani (1-56) manoscritti, mentre le prime 2 sono prive di numerazione. I fogli presentano molti interventi manoscritti autografi (tagli, correzioni, interventi interlinea) e di alcuni racconti è presente una seconda copia dattiloscritta con ulteriori interventi di correzione. Sei racconti risultano successivamente pubblicati su quotidiani o riviste: Il dattiloscritto, Zeta, Udine, Campanotto, a. X, n. 10, 1988, pp. 111-112; Il talento, Quadrivio. Trimestrale di cultura, politica, economia, attualità, a. I, n. 2, giugno 1988, pp. 21-22. Poi in Messaggero Veneto, Udine, 10 febbraio 1993, p.11, con il titolo Talento segreto; Al Roussy, in Pagine come gocce, a cura di Maria Grazia Zanon Santuz, Udine, Ribis, 1990, pp. 121-126; L’ingorgo, Il banco di lettura, Trieste, Edizioni del Tornasole, n. 7-8, 1990, p. 45. Poi in Messaggero Veneto, Udine, 27 luglio 1994, p. 9, con il titolo Ingorgo stradale … Lo smascheramento del male di vivere; Occhio Magico, Messaggero Veneto, Udine, 21 settembre 1993, p.11; Piccolo memorial (per Primo Levi), in Il soffio del gallo forcello, a cura di Danilo De Marco, Montereale Valcellina, Circolo Culturale Monocchio, 1995, pp.138-141.

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Luciano Morandini (San Giorgio di Nogaro 1928 – Buja 2009) ha svolto, all’interno del gruppo dei neorealisti friulani, un ruolo di primo piano nella realtà culturale e sociale del Friuli proponendo però delle interessanti ed innovative aperture alla cultura nazionale ed a quella balcanica, soprattutto slovena e croata. Poeta ed intellettuale sempre lontano da compromessi, oltre che con le proprie opere poetiche e narrative, ha svolto la sua attività critica attraverso la collaborazione, fin dagli anni Cinquanta, ad alcune riviste attente a registrare e comprendere i fermenti culturali in atto in Italia ed all’estero (da Momenti a La Situazione, da Quartiere a Politica e cultura, da La Battana a Il Ponte, da La città a Zeta ad Arte e cultura), ricomprendo, in alcune di esse, ruoli di direzione e di redazione. Intensa anche la sua collaborazione con quotidiani e settimanali, Il Piccolo, Il Messaggero Veneto, Il Gazzettino, Il Nuovo e la sua partecipazione a convegni ed incontri centrati sulle implicazioni sociali e politiche della letteratura di confine. Ha inoltre condotto e curato programmi culturali per Radio Rai del Friuli Venezia Giulia, Radio Koper-Capodistria e Radio Lubiana. Della sua poesia, Carlo Sgorlon ha scritto che “fin dal suo apparire ebbe un piglio virile, ruvido, impregnato di sentimenti civili […]. Si può definire sempre resistenziale, perché contiene sempre un grumo di aspra insofferenza, di opposizione contro l’andamento generale delle cose, di rifiuto a integrarsi e ad accettare supinamente un ordine qualsiasi”. Dopo l’esordio conn Terra d’amore, nel 1954, ha pubblicato molte raccolte di versi, tra le quali vanno ricordate almeno Il prezzo (1962), Il linguaggio della tensione (1971), Lo sguardo e la ragione (1979), Infrantume (1986), Camminando camminando (2004), Voci (2008) ed il volume postumo Il filo dei giorni (2009). Tra le opere in prosa, San Giorgio e il drago (1984), Lo sfrido (1989), L’orologio di Saba (1992) e l’autobiografia intellettuale Promemoria friulano (1998) e L’onestà del poeta(2013), selezione dei suoi scritti apparsi sul “Il Nuovo Friuli” tra il 2001 ed il 2009, a cura di Giuseppe Marini, nel 2013. È stato tradotto in sloveno, serbo-croato, inglese, tedesco e spagnolo.