Infiniti leopardiani e infiniti scientifici

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di Michele Diego

 

Esiste un filo sottile che lega la scienza alle discipline umanistiche. E in Italia questo filo è più indistricabile che altrove. Tanto che Calvino arriva ad affermare che Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Sempre Calvino, nelle sue Lezioni americane, scrive “quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava”, intendendo con questo che la conoscenza astronomica del poeta non aveva nulla da invidiare agli scienziati del tempo.

Effettivamente non è un mistero che, fin dai suoi primi studi, Leopardi fosse attratto dalle scienze. La Storia naturale di Buffon è uno dei suoi libri preferiti da ragazzo, e grazie a questa lettura il poeta interiorizza la sua posizione anti-antropocentrica.

Ancora più degli studi sulle diverse specie, è il cielo stellato ad affascinare il giovane Leopardi. Non a caso la sua prima opera veramente compiuta è un poderoso scritto dal titolo Storia della astronomia, libro poi caro alla nostra Margherita Hack.

Ma al di là dei numerosi dettagli di carattere naturalistico rinvenibili nei testi leopardiani, vorrei porre un quesito estremamente delicato: la concezione filosofica di Leopardi è conciliabile con la visione scientifica dell’universo?

A questo riguardo è emblematico constatare che l’interesse scientifico di Leopardi riguarda i temi trattati della scienza, più che il metodo scientifico. Il poeta non ha infatti mai dato importanza all’apprendimento della matematica, che considerava un linguaggio poco adatto a descrivere la variabilità della natura. Se per Galileo la natura è realmente intrinsecamente progettata per seguire formule ed equazioni, per Leopardi la matematica vuole costringere la natura a sottostare a delle leggi, che però non sono in grado di afferrare l’intera complessità del mondo.

Questa concezione di una natura troppo viva per sottostare alle formalità matematiche esplode nell’interpretazione che Emanuele Severino dà della filosofia leopardiana. Secondo Severino, Leopardi anticipa Nietzsche sul concetto del divenire: il poeta infatti descrive nello Zibaldone il terrore di trovarsi in mezzo al nulla. E il nulla di cui parla è il nulla da cui tutte le cose provengono e in cui tutte le cose ritornano. La verità assoluta della natura è dunque che passato e futuro sono “nulla”, mentre il presente esiste per un istante. Ma il nulla non può sottostare ad alcuna legge, e quindi non possono esistere leggi assolute in grado di predire il futuro. L’assenza totale di ogni legge universale è ciò che Nietzsche teorizza con la morte di Dio, e anche qui Leopardi anticipa il filosofo tedesco quando scrive nello Zibaldone “Certo è che, distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio”.

È chiaro che una simile concezione sia agli antipodi della visione scientifica, la quale pone come assioma fondamentale che il futuro debba sottostare alle leggi che regolano il mondo. Di più: Einstein immagina il tempo come un unicum eternamente esistente di cui ogni osservatore vede una differente porzione che chiamiamo “istante”. La metafora più famosa per comprendere tale immagine è data da Popper: tutta l’infinità del tempo è impressa su una bobina cinematografica, ad ogni fotogramma appartiene un particolare istante, ma tutti i fotogrammi sono eternamente e contemporaneamente presenti.

Ma in Leopardi la verità filosofica del divenire è superiore alla volontà matematica di ingabbiare il mondo in leggi. E se la verità coincide col terrore dell’esser nulla, la poesia fornisce una menzogna necessaria alla sopportazione della verità. E come può la poesia farci distogliere lo sguardo dal terrore della caducità di tutte le cose? Facendoci “sovvenir l’eterno”, mostrandoci “interminati spazi”, lasciandoci credere che “le morte stagioni” siano di fronte a noi, in un tutt’uno con la nostra fuggevolezza, e in tale illusione lasciarci naufragare dolcemente.