INTERVISTA A FRANKO VECCHIET: CON LA K O CON LA C?

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vecchiet 1al lavoro copiaWalter Chiereghin

 

Sono veramente felice di andare a trovarlo nella sua casa/studio nel rione di San Luigi per fargli un’intervista e non per consegnargli una lavatrice. Penso alla casetta di Salita Contovello in cui abita Boris Pahor, ma almeno lì ci sono gradini che aiutano nella discesa, mentre qui si rischia il femore ad ogni passo scendendo per un’erta di demenziale pendenza. Superato il cancello, però, il paesaggio aperto sulla città e sul mare, il minuscolo giardino, una linda casetta bianca a due piani rinfrancano e la visita allo studio del piano terra aiuta presto a scordarsi dello scampato pericolo. Al solito cordiale, Franko Vecchiet, in tuta da lavoro, mi guida tra torchi per incisione e opere finite, collage, grafiche, dipinti imballati, uno studio di scultura in legno ancora in fieri… vergognandomi un poco reprimo il colpevole desiderio di rubare ogni cosa, a parte pennelli e torchi per la stampa. Seduti al tavolo di cucina al piano di sopra, cominciamo la nostra chiacchierata con una mia domanda che, mi rendo conto mentre la formulo, può apparire scioccamente insidiosa.

 

Una domanda preliminare: Franco devo scriverlo con la k o con la c?

Puoi scriverlo come vuoi. Io so perfettamente quello che sono. Del resto Franco si pronuncia nella stessa maniera sia in sloveno che in italiano. Solo le ortografie sono diverse. Questo fatto mi fa venire in mente un piccolo libro d’artista al quale sto lavorando in questo momento. In questo lavoro affronto tra l’altro il problema dei nomi dei luoghi di Trieste e dei dintorni. Su di una pagina del libro per esempio c’è l’immagine di un monte da tutte due le parti. Soltanto il nome del monte è diverso da una parte rispetto all’altra. L’immagine è la stessa, tutto è sempre uguale, non cambia niente.

Già questa tua risposta ti identifica un po’: inserito dalla nascita in un’identità che va oltre una nazionalità al singolare…

Sono orgoglioso delle mie origini in questa nostra città multiculturale. Io non ho mai avuto dubbi su queste cose. Mio padre era di origine italiana, tra il Veneto e il Cividalese, mia madre slovena. Tra gli antenati c’è naturalmente per esempio anche un antenato di lingua tedesca, come per tanti altri triestini. Ma quello che noi siamo dipende fondamentalmente da noi, anche se tutto è indissociabile da un certo riconoscimento sociale. Ne segue che il solo modo per essere riconosciuti senza problemi dagli altri è quello di conformarsi a una categoria preesistente. In altre parole, la mia trasparenza e sincerità può avere un rimando sugli altri, ai quali sembra venga posto un problema. Ma se non fossi così trasparente e sincero con me stesso, penso che non potrei neanche essere artista che è un fare che richiede un’estrema sincerità e forza d’animo. Tutto questo succede perché la cultura come l’arte, sono sempre categorie al plurale. Se io esercitassi un’arte diciamo ottocentesca, il mio lavoro non avrebbe problemi di identificazione. Ma io credo, similmente ad altri artisti che rispetto e ammiro, che il ruolo dell’arte, sia quello di porre dei problemi che investono anche la vita, problemi attuali del giorno d’oggi.

Anche la tua formazione è stata a cavallo tra le due culture: hai frequentato a Trieste il liceo sloveno “Preseren” per poi andare a studiare a Urbino.

Sì, ma poi ancora a Lubiana, e naturalmente non posso dimenticare la frequentazione – per me molto importante – con Avgust Černigoj , che mi è stato maestro e poi amico per molti anni. Ricordo che proprio lui mi diceva che dovevo attrezzarmi per affrontare il mondo, non il breve intervallo tra la via Ginnastica, dove allora abitavo, e la via Torrebianca, dove abitava lui. Girare il mondo come avrebbe voluto fare lui, ma i tempi certo non glie l’hanno consentito, mentre negli anni miei la cosa era già, se pure di poco, più semplice. Il fatto di confrontarsi con realtà del tutto diverse da quello che è il tuo ambito è importante e ti consente di capire molte cose.

Molti artisti della comunità slovena triestina hanno scelto, per come era loro possibile, di spostarsi e di essere quindi partecipi di esperienze diverse. Penso ad esempio a Milko Bambič, che ho avuto la fortuna di conoscere di persona, che ha agito tra Trieste, Lubiana, Zagabria e che parlava correntemente una quantità impressionante di lingue.

Bambič era un personaggio incredibile. Aveva già una certa età, ma ogni tanto spariva per mesi. Andava a Parigi, forse anche dai suoi conoscenti in Sud America, non si sapeva dove. Sembrava allora una vita ai limiti del possibile. Oggi ormai il mondo è diventato più piccolo , e per i giovani di oggi tutto questo è molto più semplice. Bisogna dire che anche questo fa parte della globalizzazione.

Com’è nato in te l’interesse per le arti figurative? Te lo chiedo perché ho la sensazione che tu sia riuscito a mantenere per tutta la vita il gusto di quello che è stato nell’infanzia di tutti, quando abbiamo cominciato a scarabocchiare con i pastelli. Penso sia un’esperienza felice attraverso la quale siamo passati tutti, ma che tu – con pochi altri fortunati – sei riuscito a mantenere per tutti gli anni della tua vita, certo arricchendo quei giochi con le esperienze e lo studio. Questa è almeno la sensazione che mi viene suggerita dal vedere la freschezza che c’è nella tua inventiva, oltre che la continua ricerca di vie nuove con la quale continui a cimentarti.

Sì, è come dici tu, l’interesse per l’arte mi è venuto presto. Ho vinto un premio a una mostra di pittura giovanile. Poi si è posta l’esigenza di arricchire quel gioco. Ma dietro c’è dell’altro: col tempo si capisce che il gioco dell’arte è una cosa molto seria. Mutano quindi le caratteristiche iniziali del fare, alle quali vengono ad aggiungersi altri elementi come il rapporto con la cultura, la storia, l’emozione, l’ironia, eccetera. Spesso è indispensabile anche un certo distacco, e il tutto finisce per diventare qualcosa di molto più complesso e articolato.

Per mantenere quella freschezza cui fai riferimento, è fondamentale tenersi un po’fuori, ma impossessarsi degli strumenti, della cultura necessaria e del saper fare per poter continuare. Con tutto ciò, è indubbio che nel processo creativo permane una componente ludica come un’attività umana importante.

C’è un’altra componente che si percepisce nitidamente nel tuo lavoro, o che almeno io ho fortemente avvertita: si tratta del ritmo, il che mi fa pensare che fa parte della tua formazione anche lo studio della musica, e difatti l’ordine che è alla base delle tue composizioni ha una connotazione che si direbbe addirittura musicale, non è così?

È incredibile come tu abbia percepito questo elemento così chiaramente. Penso che tu abbia ragione, c’è qualcosa nello schema compositivo di un dipinto o di un’incisione che appare analogo all’organizzazione interna di un brano musicale. Forse anche il mio metodo di lavoro di ricorrere spesso alla griglia potrebbe nascere da questa premessa. C’è poi un altro fattore imprescindibile dal ritmo, che è il tempo…

Del tempo parleremo tra poco, se permetti. Intanto vorrei che ci dicessi com’è che usi della libertà che è data agli artisti contemporanei, che non subiscono alcuna costrizione, come poteva essere nei secoli precedenti quello in cui siamo nati noi. A me sembra che tu lo faccia con estrema misura, a giudicare almeno dalla coerenza formale che si riscontra visitando una tua mostra.

Non sono molto d’accordo sulla libertà espressa nel lavoro degli artisti contemporanei. Al contrario, vedo tutta una serie di condizionamenti, di autolimitazioni, di adeguamento a norme non scritte e di conformismi. Tutto questo non permette a buona parte dell’arte di oggi di guardare e confrontarsi apertamente con le trasformazioni del mondo. Penso infatti che gli artisti – e non solo quelli delle cosiddette arti visive – tendono a creare dei mondi propri dove si possono porre dei problemi e a volte anche proporre soluzioni. Io spero di appartenere a questa categoria di artisti : non soltanto la forma è importante, ma una maniera di fare che si ripete e ripropone nell’incisione, nella pittura, nell’installazione, in ogni ambito nel quale mi esercito.

Si direbbe che la tua “maniera di fare”sia quella di forzare i limiti. Mi spiego meglio: la sensazione che offri a chi osserva la tua opera è che ti vada stretto quanto ti viene presentato come base per il tuo lavoro, come se le due dimensioni di un foglio di carta o di una tela non riuscissero a contenere quanto intendi metterci sopra, e difatti ecco le incisioni in cui la superficie del foglio è rilevata a ricercare un’altra dimensione: la profondità e poi, in quasi ogni altra cosa che crei, a parlarci del tempo, un’ulteriore dimensione.

Ah, ne parliamo, allora! Sì il tempo… ogni opera è testimone di un tempo che passa inesorabilmente e continuamente registra e modifica la realtà. Il mondo è già diverso, magari dopo un mese, da come l’avevamo percepito in un dato momento. Non è un caso che la mia mostra che è stata allestita al Museo Revoltella avesse il titolo “Memoriabilia”. Rappresentare le tracce di passaggi, l’usura o l’evolversi delle cose costituisce il tentativo di dar testimonianza della storia in generale e di se stessi in particolare. Io ormai da anni continuo a fare un ciclo di lavori che sono un documento sul passare del tempo, sulla sua definizione e la modificazione indotta sugli elementi e materiali usati. Poco dopo l’anno 2000 iniziando questa serie di lavori ho fatto una scelta radicale che consiste nel dipingere, incollare, togliere, rimettere e ridipingere gli elementi per lo più cartacei sulla tela, seguendo un protocollo che mi sono imposto all’inizio e al quale non ho mai derogato. Emerge così una mia presa di posizione rispetto al mio proprio lavoro che va di pari passo con il progetto di vita fino alla sua conclusione. Si tratta forse di un progetto per certi versi quasi inumano, vicino alla follia, ma che reclama intransigenza, precisione e rigore e si accompagna a un preciso rituale di lavoro.

Vorrei che tu mi dicessi qualcosa riguardo a una componente di socialità che è avvertibile nel tuo lavoro, non soltanto nell’insegnamento, dove la cosa è connaturata all’attività dell’insegnare, ma anche nella tua espressione artistica, nel tuo ruolo di organizzatore. Hai sempre avvertito la necessità di lavorare assieme ad altri, mi pare.

Certo. Ritengo importante il confronto e l’iterazione con altri colleghi: già nel ’70 ho contribuito a fondare il “Gruppo U” con altri cinque artisti, per condividere in qualche modo l’attività creativa con altri giovani artisti. Qualche anno dopo ero nel “Gruppo 15”. Questo lavorare in gruppo deriva da lontano (pensa alle botteghe del Rinascimento) e non si esaurisce soltanto nella collaborazione di un’equipe di artisti che condividono un progetto creativo affine. Io ho lavorato molto anche con i poeti, assieme ai quali ho creato numerosi “libri d’artista”, con Marko Kravos, con altri per l’edizione Minimalia, e la cosa non si ferma qui.

Questa capacità di condividere con altri la tua creatività è una caratteristica che implica una grande generosità, com’è del resto, forse più banalmente, nella stessa attività dell’insegnare. Ora tu hai ereditato la gestione della Scuola dell’Incisione fondata da Carlo Sbisà…

Sì, questa scuola mi ha dato notevoli soddisfazioni, anche perché molti allievi sono artisti con un curriculum alle spalle, che magari prima non hanno mai affrontato la specifica tecnica dell’incisione, oppure si tratta di insegnanti di materie artistiche, o semplici amatori d’arte di solito molto informati e colti. Ci sono poi anche dei principianti pieni di entusiasmo e talento. Considero molto gratificante lavorare assieme a queste persone.

In molte delle tue opere, e particolarmente nelle sculture, ricorre il tema delle lettere, dei caratteri tipografici, che presentano l’idea di un confronto tra immagine e parola, che evidentemente ti affascina, come ha sedotto anche altri artisti, anche qui a Trieste. Perché ti appassiona tanto questa tematica?

Guarda, in parte è per quello che hai detto tu, perché la parola, soprattutto scritta ci induce a riflettere sia sul suo significato che su essa stessa, sul significante. Poi c’è l’altro aspetto, contiguo alla grafica, perché la stampa, da Gutemberg ai nostri giorni, rappresenta tutto quello che noi sappiamo, quello che abbiamo appreso a scuola, tutto ciò di cui è fatta la nostra cultura. Siamo passati tutti attraverso questa esperienza.

Anche i libri d’artista fanno parte di questo tuo ambito, vero?

Sì, sicuramente sì.

Dimmi ancora qualcosa del tuo rapporto con Černigoj e Spacal: tu hai avuto una relazione profonda con entrambi i grandi artefici della grafica giuliana, il tuo maestro e l’altro del quale hai curato l’importante retrospettiva voluta dalla Provincia al molo IV, e anche altre importanti mostre.

In effetti io avevo all’inizio pochi rapporti con Spacal, perché tra lui e Černigoj non si può dire che corresse buon sangue. Černigoj si è considerato sempre un avanguardista, e rimproverava all’altro di essersi attardato, una volta individuato un suo stile. Il primo mi è stato maestro e poi amico per molti anni. Per me è stato un legame importante, anche fuori del rapporto maestro/allievo, ciononostante ho sempre continuato, a differenza di altri allievi, a dagli rispettosamente del lei. Quand’era già in età molto avanzata ha voluto che lo accompagnassi a Belgrado per una sua mostra antologica, perché si sentiva poco sicuro ormai per viaggiare da solo. Difatti stavamo salendo su una scala mobile quando lui cadde. Quella caduta avrebbe potuto essere realmente rovinosa, ma fortunatamente io che ero dietro di lui riuscii ad afferrarlo in tempo. Quando si riprese dallo spavento, mi chiese di dargli da allora del tu. Con gli anni, poi, ho avuto un buon rapporto anche con Spacal, con cui andavamo a visitare le mostre anche a Venezia e altrove, discorrevamo di tecnica dell’incisione e di molto altro, in un rapporto molto più sistematico, come era lo stesso Spacal. Una volta ho allestito una sua mostra, e quando gli fu dedicata un’importante personale al Museo d’Arte Moderna di Lubiana, volle che fossi io a curarla. Non voleva che fossero altri a farlo, perché era anche un po’ diffidente. Da allora abbiamo fatto ancora molte cose assieme, il che naturalmente mi ha procurato un grande piacere.

A parte queste due personalità, che comunque rimangono dei maestri, non solo tuoi ma di tutti, che rapporti hai con i tuoi colleghi, quelli della tua generazione o anche più giovani?

Io sono stato in relazione con molti artisti, anche fuori dall’ambito triestino…

Per esempio?

Per esempio Licata,… ma mi accorgo che continuo a parlarti di persone scomparse! In effetti non è un caso: trovo che con quelli della mia età o con quelli più giovani è più difficile avere dei rapporti; è più difficile incontrarsi voglio dire, perché c’è sempre meno tempo da dedicare agli incontri. Se ci pensi ci sono una quantità di opportunità in più, il telefono, poi il cellulare, il computer è tutta la roba per agevolare la comunicazione, ma in effetti questa è forse anche la causa per cui la gente si sente più sola.

Ultima domanda: esiste secondo te un senso sociale del fare arte oppure l’artista può vivere in un suo mondo, avulso dalla realtà che lo circonda?

Ogni periodo storico, ogni modificazione dell’assetto sociale ha espresso un altro tipo di arte. Penso che l’arte non sia una, ma è molteplice, proprio come lo siamo noi. Del resto basta osservare come in questo nostro mondo, che è sempre più problematico e complesso, anche l’arte si fa progressivamente più complessa, e non si diversifica più soltanto orizzontalmente, nella dimensione geografica, e nel tempo che passa, ma anche verticalmente, facendo riferimento al mutare delle condizioni ambientali che la circondano, e questo anche in una società che si pensa globalizzata. E in tale complessità, ovviamente, vi sono tante strade diverse, che è difficile ma in definitiva anche necessario far confluire in un punto principale di riflessione. Ma forse una sola strada principale non esiste più.