Irma tra due patrie mancate

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In fuga da Sarajevo assediata a quindici anni, è poi approdata a Trieste, vivendo un’esperienza così amara da farle rimpiangere di essere fuggita

di Gabriella Ziani

«In quel 1991 sembrava che tutti avessero smarrito non solo il loro senso civico, ma che avessero proprio smarrito la bussola della storia. Si poteva anche non essere più d’accordo con la politica di Tito e sentire la necessità di un cambiamento, di un rinnovamento, di un passo in avanti, ma non al prezzo della trasformazione in bestie, carnefici, despoti e aggressori». In quel 1991 Irma Hibert ha 11 anni. È una diligente scolara a Sarajevo, ha due buoni genitori e un fratello più grande. È orgogliosamente un “pioniere di Tito”, canta con trasporto gli inni partigiani d’obbligo, docilmente deve pure imparare come si pulisce una canna di fucile, ma la vita scorre proprio serena. Non può certo immaginare che di lì a poco, con la Jugoslavia in pezzi, la Bosnia sarebbe diventata terreno di feroce contesa e conquista su base etnica. E che la grande capitale in cui musulmani, cattolici, ebrei, croati, serbi erano vissuti in armonia, senza etichettarsi in alcuna direzione, sarebbe stata chiusa da un assedio mortale, semidistrutta da bombe e mortai, affamata, assiderata, con la gente uccisa per strada per mano di cecchini appostati dappertutto. Neanche nel peggiore incubo avrebbe potuto immaginare che nel 1995, quando era appena una adolescente di quindici anni, sarebbe scappata in extremis dall’inferno, da sola, attraversando il fangoso tunnel dei militari (e del contrabbando) per ritrovarsi sperduta fra parenti croati e soprattutto poi triestini che se la scaricarono l’un l’altro come un pacco ingombrante e indesiderato. Non sapeva ancora che quel che era successo a casa sua sarebbe stato giudicato come genocidio e crimine contro l’umanità, riportando gli orologi della storia a un tempo che ci si illudeva passato per sempre, e nemmeno che la sua nuova vita si preparava a essere peggiore della precedente.

Terribili la guerra, la fame estrema, il gelo, la paura, la mancanza di luce e di acqua. Ma più terribile ancora il “dopo”, quella salvezza che per lei non fu tale, ma un’esperienza così amara da farle rimpiangere di essere fuggita, e portarle in bocca parole nere e gravi sulla «città posta all’estremo angolo dello stivale», la Trieste dove era stata catapultata e non amata: «Tante, troppe volte ho pensato che per me la vera guerra è cominciata quando ho messo piede in questo luogo…». E anche: «A volte sopravvivere è una punizione peggiore del morire. Lo sapeva bene Primo Levi quando si è tolto la vita». Nessuna presunzione, avverte, con questo paragone, ma un comune sentire, anche nel constatare che la propria esperienza non è veramente raccontabile, non è comunicabile, e resta un trauma sepolto. Quando uno va via, non avrà più una heimat, né una precisa identità, né ricordi da poter condividere, e sarà estraneo ovunque, dopo aver bruciato le tappe di una vita che non si può riavvolgere.

Adesso però Irma Hibert ha raccontato la propria storia in un libro. Lo ha fatto a 25 anni dagli accordi di Dayton che posero fine alla carneficina di Bosnia pochi mesi dopo la sua fuga, e proprio mentre notizie molto negative cominciano ad arrivare oggi da quella terra, dove i fragili equilibri di governo condiviso rischiano di venir manomessi da pretese di nuovi primati interni, rinnovando pessimi ricordi e pericoli. Laureata in Lingue, un master in Cultural management, un dottorato di ricerca di lingua spagnola, traduttrice, esperienze di insegnamento universitario: ne ha fatta di strada la Hibert da quando è espatriata senza sapere una parola d’italiano, additata e schivata come “profuga”. Il suo libro autobiografico La sopravvissuta è un gioiello per la limpida, solida e sobria capacità di narrazione. Ci porta – come fanno le memorie dei sopravvissuti ai lager – semplicemente nei gironi dell’inferno, rivivendolo lei stessa, che a distanza di anni riesce a guardarsi da un’altra sponda del mare, come se quella ragazzina fosse la sua immagine riflessa nello specchio del tempo.

È con lo sbalordimento di allora, e senza mai citare parti politiche, che Irma torna ai giorni in cui a Sarajevo fu tolta l’elettricità. Provate a pensare che cosa significa, ci dice. Buio pesto, andare a tentoni in casa, niente acqua calda, niente cibo cotto, niente riscaldamento, con temperature molto al di sotto dello zero. Il sollievo è il ritorno della luce a intermittenza, ora in un quartiere ora in un altro. Illusione terribile, lei e la sua famiglia si accorgono che gli assedianti illuminano settori della città per meglio individuarli come bersaglio di granate. Dunque, il buio è un baratro, ma il ristoro della luce è peggio. Irma torna col ricordo al frigo spento e vuoto, alla fame, a quelle patate arrivate un giorno in casa come un miraggio, ma marcite nel gelo. Alle file di ore e ore, dopo aver camminato per chilometri a rischio di prendersi una pallottola nella schiena, per riempire da una fonte la tanica di acqua. Al terrore, quando il fratello è richiamato alle armi. A quando via via si chiudono le ultime possibilità di espatriare.

E qui è un altro dei nodi forti di questa testimonianza. Per varie circostanze e opportunità la ragazzina avrebbe potuto lasciare Sarajevo molte volte: per fuggire con tutta la famiglia ben prima del dramma, per accettare l’offerta di accoglienza lanciata da un convento di suore a Ulm, in Germania, per andare in Canada vincendo un concorso di scrittura appositamente combinato. Mai la madre acconsentì, per l’amorevole desiderio di tenere unita la famiglia. Mai il padre prese partito: credeva che tutto si sarebbe risolto in breve tempo. E l’ultima «fregatura» (il termine è dell’autrice) arrivò in coda, quando il fratello annunciò la volontà di disertare non sopportando più la mattanza, e allora i genitori si attivarono per procurare ai figli un passaggio clandestino “dall’altra parte”. Un viaggio che per Irma fu oltre misura traumatico, e che per il fratello invece non ci fu mai: all’ultimo minuto preferì non rischiare, e lei venne lasciata sola.

Amare le riflessioni sui destini delle persone. Sue amiche espatriarono, e bene, costruendosi poi culture, carriere e alte professioni all’estero. Una dalle suore a Ulm, una in Canada, e una che era andata in Russia da amici di famiglia. Specie per quest’ultimo caso l’amarezza di Irma Hibert, che vuota il sacco, è profonda: questi “estranei” trattarono la ragazzina arrivata da Sarajevo come una principessa. Certo, benestanti. Ma anche generosi di affetto, mentre per Irma l’ambiente del vasto parentado triestino fu aspro e ostile.

Ma come mai aveva questi parenti? Nella drammatica vicenda c’è un paradosso. Il nonno materno di Irma era triestino, ma non volendosi piegare al fascismo aveva attraversato il confine e si era stabilito a Sarajevo. Tanti anni dopo la nipote dovrà fare il percorso inverso, da Sarajevo a Trieste, sempre per ragioni politiche. Ma la delusione patita per la grave freddezza della città le fa osservare che, forse, il nonno non se n’era andato solo per ragioni di tessera… Un rimprovero su cui la città che si ritiene buontempona dovrebbe cominciare a riflettere. Quanto è sottile lo spazio fra la decantata tolleranza e l’indifferenza?

La Hibert ci lascia in ultimo altre considerazioni da memorizzare, che riguardano appunto il ricordo. Chi vive esperienze estreme, e poi va altrove ricostruendosi molto faticosamente, non solo non può condividere la memoria del proprio vissuto in profondità (in comunione) con il nuovo ambiente, ma – e questo è perfino più triste – nemmeno con quello di appartenenza: chi torna “a casa” ha bisogno di ricordare, ma chi “è rimasto” ha il bisogno, contrario, di dimenticare. Così lo stato di esilio diventa una condizione interiore, inesprimibile. Per questo, forse, esistono i libri, e sono preziosi per tutti quando – come in questo caso – sanno che cosa dire, e come.

Irma Hibert

La sopravvissuta

Trieste, Battello stampatore, 2021

pp. 125, euro 14,00