Karel Moor, musicista e romanziere

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Il ritratto in nero di una vita d’artista

di Fulvio Senardi

 

Fra i tanti intellettuali che ha accolto, negli ultimi decenni dell’Impero, la tormentata Trieste di allora, città “pan-europea, se mai ce n’è stata una” (così H. L. de la Grange, il massimo studioso di Mahler), spicca la figura di un musicista di cui, fino a ieri, si era persa traccia e memoria, Karel Moor. Ora, per merito dell’Associazione culturale triestina “Lumen Armonicum” guidata da Massimo Favento, non solo disponiamo della registrazione di alcune sue composizioni fra quelle che gli conquistarono la stima della Trieste musicale nel 1905, ma della traduzione (per opera di Stefania Mella) del suo romanzo autobiografico, Karel Martens – Romanzo di un giovane artista (edizione Lumen Armonicum, Trieste 2019, pp. 168, con contributi di Massimo Favento, Stefania Mella, Antonio D. Sciacovelli), libro che ebbe, in ceco, la prima ed unica edizione nel 1906.

Il romanzo, di lettura un po’ faticosa nella prima parte, eppure, per molteplici ragioni, di straordinario interesse, rientra perfettamente in quel filone del “romanzo d’artista” cui Marcuse dedicò nel 1922 la sua tesi di laurea (pubblicata da Einaudi più di trent’anni fa). Non appena l’artista, con il declino del mecenatismo e l’inizio dell’era di borghese, cessa di interpretare un ruolo sociale organico e garantito, si spalancano per lui le porte dell’inferno, nel tormento di non potersi integrare in quanto tale in un contesto che mira al tornaconto economico se non sacrificando ciò che più conta ai suoi occhi: la libertà creativa.

Il “paradiso” – il successo per sé e la propria arte – rimane un obiettivo remoto e sovente irraggiungibile, la vita si trasforma in una straziante discesa verso l’abiezione, la follia, la morte. Italo Chiusano che, da par suo, ha commentato il libro di Marcuse, ha parlato di un destino tipicamente tedesco per l’artista non integrato, cui i “filistei”, volgendogli le spalle, hanno decretato la sorte: la follia, e qui è assolutamente emblematico un capolavoro come Lenz di Büchner, oppure il suicidio, come in Morte a Venezia di Thomas Mann. Inarrivabile, opera-modello di un ethos al tramonto, il messaggio di conciliazione del Wilhelm Meister di Goethe: dal Settecento in poi, e non solo in terra tedesca dove il dramma si esplicita in prima assoluta, l’artista è uno spostato (oppure, disprezzato dai confrères, un grigio interprete del gusto di massa) che si rifugia in un mondo ideale – il sogno, la turris eburnea, la bohème – ma che dentro questo intimo salon des refusés paga un prezzo assai alto, in termini di equilibrio psicologico, autostima, creatività. Negli anni fra Ottocento e Novecento, in quella cosiddetta Belle Epoque che moltiplica le possibilità di integrazione sociale dell’artista, il tema non perde però d’attualità: Zola, fedele al credo scientista, rintraccerà in una tabe ereditaria le radici più segrete del disagio del suo protagonista pittore (L’opera), Ibsen, a fine carriera, si porrà l’amara domanda su quanto l’arte mortifichi la vita, paralizzandone la spontaneità col suo specchio di Medusa (Quando noi morti ci destiamo). Come a ufficializzare e a banalizzare tutto ciò, è sorto intanto il mito del “maledettismo” e l’endiadi, presto proverbiale, di “genio e sregolatezza”. E Karel Moor, al quale finalmente ritorniamo? Nasce nel 1873 in Boemia, studia ai conservatori di Praga e Vienna, è insegnante e direttore d’orchestra, ma viene tenuto ai margini della vita artistica di Praga fino all’inaspettato successo triestino che, di rimbalzo, gli conquista una certa notorietà in patria e gli arma la mano per quel ritratto in nero di una vita d’artista che è il Karel Martens: una riflessione autobiografica (implementata anche dall’inserimento nel testo di brani del diario di Karel e di alcune sue lettere in una sezione che separa il romanzo in due tronconi) perfettamente inseribile nella categoria romanzesca appena descritta. Il trattamento del soggetto è di taglio squisitamente neo-romantico: un “Heldenleben” – il poema sinfonico di Richard Strauss risale al 1898 – che ha un andamento in crescendo (proprio come in Strauss), con una prima parte cupa e disperata, che racconta l’insanabile conflitto tra un artista geniale e un ambiente geloso e ostile, la “comunella dei malvagi” (Michelstaedter) che si rifiuta di riconoscerne il valore portando il protagonista fino all’orlo del suicidio, poi l’espatrio, l’accoglienza cordiale a Trieste, e infine il successo che porta con sé, con la piena consapevolezza della propria vocazione, anche l’amore. Quanto alla descrizione delle conseguenza psico-fisiologiche del muro di indifferenza che i circoletti del notabilato artistico boemo erigono intorno a Martens, astenia ed esaurimento, crisi allucinatorie, emottisi, e tutto raccontato fin quasi al dettaglio più crudo, sembrano invece provenire dal magazzino del naturalismo. Già nel prime pagine il ritratto che Moor fa del suo Martens lascia presentire l’andamento del romanzo: “La bocca di tanto in tanto si contraeva spasmodicamente, scossa da un breve tremore. In quei momenti due rughe, estendendosi dal naso agli angoli della bocca, si facevano più profonde, mentre un ghigno ribelle e ironico sfigurava il volto, sul quale di solito dominavano il dolore e un’amara malinconia”. In una Praga eternamente grigia e piovosa, Martens trascina la croce del suo calvario di artista incompreso, si ingaglioffisce nelle bettole, contrae addirittura un degradante matrimonio, spinto da una specie di cupio dissolvi venato di sensualità, finché decide, sfiorata la follia e la morte, di fuggire al Sud, raggiungendo a Trieste la sorella. Qui non solo il clima, la contemplazione del mare, i colori del cielo contribuiscono a guarirlo dalla sua ipocondria, ma, più di ogni altra cosa, l’accoglienza calda, se non entusiastica, del mondo musicale della città adriatica. Ha giustamente osservato Massimo Favento, nella sua irrituale ma brillante postfazione, che mentre nelle parti ambientate a Praga Moor fa uso di nomi fittizi per impedire ogni identificazione (precauzione necessaria, se pensiamo alle frizioni di Moor con il suo ambiente), la cautela cade quando si viene agli incontri triestini, di cui Moor-Martens scrive senza reticenza, citando luoghi e persone quasi a pagare un debito di gratitudine: se, al primo incontro, Antonio Zampieri non gli fa una buona impressione (ma “forse su di lui alla fine mi sbaglierò” …), lo conquistano invece Alberto Caselli ed Enrico Schott nel cui palazzo, come intuisce Martens, si concentra “il cuore della vita musicale cittadina”. È una pagina della Trieste artistica del primo Novecento che prende così vita sotto i nostro occhi, ed è da Trieste che parte l’impulso per il riscatto di Martens in terra boema, grazie ad una piccola tournée artistica che il “Quartetto triestino” ha deciso di intraprendere a Praga per portarvi alcune sue composizioni da camera. Finalmente il successo. Eppure l’aria natia non si confà al musicista, di nuovo insidiato da una “opprimente depressione”, tormentato dal suo “tipico umor nero”, perseguitato dalle fitte di una “sensibilità malata”. A salvarlo sarà l’amore per una giovanissima attrice, con la quale egli riprende la via del Sud, la sua patria d’elezione (un motivo dove è evidente la rielaborazione di alcuni spunti del Wilhelm Meister di Goethe) che gli schiude una nuova promessa di felicità: “Martens camminava insieme a Karla sul lungomare di Barcola. Il sole stava per volgere a Ovest. Era un giorno splendido, estivo. Le onde del mare leggermente increspate si infrangevano con un dolce fragore sulla riva […]. L’acqua faceva risplendere milioni minuscole gemme. A una certa distanza si scorgeva il fiabesco castello di Miramare, avvolto in un vapore leggero e trasparente. […] Quasi a riva, dondolavano alcune barche da pesca. Da ogni cosa, da quell’immenso spazio, dal territorio tutt’intorno, emanava una pace celestiale. Martens fermò il passo. Entrambi guardarono il mare. Karla si strinse a Martens, poi sospirò. […] Una quiete, una pace celestiale. Che sia per sempre?”

 

 

Copertina:

Karel Moor

Karel Martens

Romanzo di un giovane artista

traduzione di Stefania Mella

con contributi di Massimo Favento,

Stefania Mella, Antonio D. Sciacovelli

edizione Lumen Armonicum, Trieste 2019

  1. 168, euro 18,00