La città interiore

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L’ultimo libro di Mauro Covacich

Una panoramica sul Novecento triestino, dal punto di vista storico, letterario e politico, con qualche incursione al di là di Trieste

di Gianfranco Franchi

 

Non è un romanzo, al limite è un mezzo campionario di aneddotica letteraria triestina e covacicia; non è affatto un saggio, al limite è un lunare zibaldone; non è un diario, ma può somigliargli, in più di un frangente; non è un memoir famigliare, ma ne ha qualche elemento, soprattutto nelle rimozioni, nell’enfasi e nelle selezioni; è un libro dedicato a Trieste, ma non è una guida né ha niente di iniziatico o di strutturato: cos’è quindi l’ultima fatica di Mauro Covacich, e a che pubblico si rivolge? Tecnicamente, è una pubblicazione ambiziosa: è un’estetizzazione di Trieste e la rappresentazione di una velleità di simbiosi tra Trieste e Covacich (e la famiglia Covacich); è una panoramica sul Novecento triestino, dal punto di vista storico, letterario e politico, con qualche incursione al di là di Trieste: si intende a Est di Trieste, nei Balcani, e forse la scelta è un po’ inattesa considerando quanto tempo abbia passato Covacich tra Pordenone e Roma, negli ultimi trent’anni, e quanto sia occidentale la sua narrativa. E poi, questo libro è soprattutto un preciso posizionamento – in questa oscura epoca che stiamo vivendo, direi quasi che è una “geolocalizzazione”, una geolocalizzazione letteraria e politica – di Mauro Covacich: con tanto di straniante e borgesiana autoidentificazione finale con un suo omonimo, il poeta croato Ivan Goran Kovačić, partigiano, caduto nel 1943 per mano dei cetnici, sebbene fosse stato un nemico degli ustascia e un amico del popolo serbo loro martire; una figura, questa di Kovačić, che un tempo un lettore ideologizzato avrebbe definito “martire di tutti i fascismi”; ma che oggi, ben consapevoli delle responsabilità storiche di Tito e ben informati della robusta e variopinta quantità di massacri e di violenze da lui comminate, si dovrebbe definire più correttamente “martire dei totalitarismi”. Bene: detto ciò, è pacifico ammettere che questo è il primo libro complesso di Mauro Covacich; onestamente credo sia essenzialmente inaccessibile, o o comunque difficilmente comprensibile, per la massima parte dei lettori italiani, o comunque al di qua del Lisert (sto scrivendo da Roma); ad esempio, è scritto dando per acquisito che i nostri connazionali sappiano orientarsi nelle contorte, schizofreniche e mediamente contraddittorie acrobazie politiche dei comunisti triestini e istriani, e che sappiano leggerle e decifrarle nel tempo; o almeno dando per scontato che i nostri compatrioti sappiano (tutti) che Trieste non fu affatto “liberata” dalle truppe titine (anzi); è scritto dando per pacifico che i nostri connazionali conoscano davvero la storia di Trieste, e non soltanto per via degli studi scolastici, che sappiano che nel CLN triestino c’erano dolorose e scandalose assenze; è scritto scommettendo che si possano pubblicare concetti pericolosamente contraddittori, da ogni punto di vista, a breve distanza [ad esempio: prima si ricorda la definizione della Morris di Trieste “città a prevalenza linguistica italiana in territorio slavo”; poi si ribadisce in più di un frangente che l’Istria, fino alla tragedia dell’esodo, era a maggioranza assoluta italiana, sia nella costa sia nelle poche cittadine dell’entroterra, e che ovviamente “la maggior parte degli esuli istriani è più italiana del triestino medio”: vero, anzi sacrosanto; solo certi villaggi istriani erano a prevalenza slava, da sempre; ma allora la Morris doveva ridefinire meglio il “territorio slavo”, temo, spostandolo più a Nord o più a Est; oppure, Covacich poteva correggere quel territorio definendolo con un altro aggettivo; oppure, oppure, oppure. Che stanchezza…]. Insomma: questo libro, da tanti punti di vista, è un azzardo, e forse starà bene, tra una manciata d’anni, nel catalogo di qualche editore locale, capace di decifrare e rivedere con l’autore certi passi prima di pubblicarli, o almeno di consigliare maggior cautela. C’è forse una ragione per cui certe materie e certi argomenti vengono consegnate alle esperte e sapienti mani degli storici: la loro suprema delicatezza.

A che pubblico si rivolge, quindi, Covacich? Io intravedo tre tipi di pubblico differente; i lettori di Covacich, che probabilmente preferiranno la Trieste raccontata nel suo riuscito, divertente e intelligente Trieste sottosopra [Laterza, 2006]; i lettori di questioni triestine e balcaniche, che potranno tornare a giocare al vecchio gioco delle troppe contraddizioni, dell’ovvia complessità, degli antagonismi etnici, delle solite diffidenze, delle memorie ostili e di quelle fraterne, e così via; infine, lo trovo adatto ai lettori della letteratura sulla “gloriosa Trieste”, quella che tecnicamente dovremmo chiamare “la seconda Trieste”, quella di fondazione austriaca, o più chiaramente ancora quella nata negli anni del Porto Franco, a metà Settecento, nata forte della rovina di Venezia e della morte di Venezia, nata rubandole il dialetto e buona parte del commonwealth, nata cancellando quasi duemila anni di storia, di architettura cittadina, di spirito e di dialetto tergestino. Quella che oggi tanti rimpiangono: cioè la Trieste “grande provincia imperiale”, cosmopolita e popolosa; quella del Novecento letterario scintillante di gloria (Svevo; Joyce; Slataper; Saba; e poi gli altri); quella della cartolina nostalgica che il turista medio saluta e pretende. Questo libro è per quei tanti che ogni volta che parlano di Trieste o pensano a Trieste fanno partire la sua storia da allora, un po’ come faceva Elio Apih nel suo saggio uscito per Laterza; dal Porto Franco; è per chi ha deciso che Trieste si è fermata in quel momento là; e quindi si aspetta, ogniqualvolta un libro racconta Trieste, di leggere qualche storia sull’amicizia tra Svevo e Joyce, o sulla fortuna della libreria di Saba, o sul peso e sul significato della presenza del povero Quarantotti Gambini in città. Covacich non nega niente della Trieste da cartolina, c’è qualche cameo di Claudio Magris e naturalmente c’è più di un saluto alla Jan Morris; ovviamente non c’è traccia della fondamentale Trieste austriaca della Cialente, né della Trieste austriaca di Fölkel; in compenso, fa capolino la Trieste di Pahor [col solito richiamo alla questione del Narodni Dom, ormai da manuale, e la solita bugia sul “rimosso”: altro che rimosso, è un mantra ripetuto ossessivamente]. Diciamo che a questo terzo tipo di pubblico va spiegato che Covacich ha risolto i problemi etnici della città stabilendo che si tratta solo ed esclusivamente di antagonismi tra la componente italiana e la componente slovena, quasi fossero le uniche due protagoniste della storia cittadina; ha completamente rimosso la presenza ultrasecolare di una comunità austriaca, sostanzialmente spazzata via o costretta a imboscarsi e a mimetizzarsi nel 1918; ha sostanzialmente rimosso o ridotto a elemento folkloristico la presenza secolare di comunità numericamente e politicamente rilevanti, come quella serba e quella greca; ha totalmente evitato di parlare di che lingua si parlasse in città fino al momento in cui il dialetto veneziano diventa “triestino”. Sono approcci molto diffusi, ma per quanto mi riguarda culturalmente è tutto deprecabile, e degno di contestazione; sono approcci molto semplificati, spesso comodi ad alimentare l’irredentismo sloveno su “Trst” e la nostalgia italiana per la lontana e romana e friulana (già) Tergeste.

Cos’altro c’è nella Città interiore? C’è, giusto nelle prime battute, ampiamente rilanciate in bandella, un parallelismo tra il bambino Mauro Covacich che osserva 200mila tonnellate di petrolio riversate ai piedi di Trieste, nel giorno dell’attentato dei Fedayn, nel 1972, e il bambino Flavio Covacich, suo padre, che nel maggio 1945, durante l’occupazione titina, va a perfezionare il dialogo tra suo padre Marcello (si sente italiano, è figlio di sloveni di Divača) e i neozelandesi, portandosi sul groppone una sedia con due parole del vecchio Bottai. C’è più di qualche ricordo della nobile figura materna, una Stefanutti, esule istriana “che preferisce restare in punta di piedi sul presente”, tesserata CGIL, ferita dall’infamia titina e partigiana e tuttavia (o forse proprio per questo) orgogliosamente socialista; ci sono tanti ricordi degli anni dell’Università, dei professori, degli esami fatti e di quelli mancati, dell’imbarazzo per aver scelto Filosofia e non l’Isef; c’è segno dello stupore per la scoperta di un registro parrocchiale in glagolitico a San Dorligo; c’è parecchio antagonismo di classe (posso?) tra la Trieste borghese e la Trieste proletaria. Ad esempio: “Zeno metteva in luce la triestinità nevrotica, cerebrale, ciclotimica dei miei compagni di classe e di università, che avevano sempre un nonno che parlava con naturalezza in greco o in tedesco, una madre che sfogliava L’Espresso fumando in salotto e da studentessa aveva fatto in tempo a conoscere Giani Stuparich o Anita Pittoni. Ragazzi col doppio cognome, spesso di origine ebraica, che vivevano in via Rossetti o sul colle di San Vito e nei loro appartamenti pieni zeppi di libri avevano la stanza per la domestica. E in casa parlavano ‘in lingua’, come ancora oggi si usa dire invece che ‘in italiano’, a marcare con un’espressione così curiosa la distanza dal dialetto”. E tornando al megazibaldone nascosto nella Città interiore: c’è spazio per un pellegrinaggio sulla tomba del povero Tomizza, a Materada, e per uno spuntino sul tavolo della sua ultima casa istriana, nella minuscola Momichia; c’è una simbolica ricerca, naturalmente fallimentare, della tomba del poeta croato Ivan Goran Kovačić, in positio princeps; c’è un ricordo per l’incontro-scontro tra Svevo e Saba e uno per l’incontro amicale tra Svevo e Montale, dovuto ad antichi buoni legami industriali famigliari; c’è lo scontro tra Quarantotti Gambini e Paul Eluard e c’è qualche passaggio dedicato a Giotti. C’è tantissima carne al fuoco, ma senza raziocinio; per questa ragione, la tentazione è di considerare La città interiore, volendo semplificare, un diario, pretenzioso e sentimentale, personale e ambizioso, triestino in accezione covacicia: mezzo italiano, mezzo sloveno. C’è la sensazione di un lavoro nato su commissione, o comunque studiato per parlare a qualcuno all’estero; c’è il paradosso che, data la complessità di certe vicende politiche e storiche in genere, questo “estero” purtroppo include tanto l’Italia quanto la Slovenia, che in fin dei conti hanno idee convergenti, su Trieste, e analoghe fantasie suprematiste (quale sia la più fondata è facile riconoscerlo). C’è una quarta di copertina che lascia piuttosto interdetti, perché sembrava avere il sapore di un congedo: è laconica e lapidaria, e piuttosto scentrata rispetto alla narrazione. Dice: “Capisci anche tu che non sarà facile rivedersi in futuro”; c’è poi una copertina onirica e respingente, con due bambini che uno specchio fa diventare due adulti, che meriterebbe un articolo a parte e forse un buon analista; c’è un collocamento editoriale di notevole interesse nazionale, in quella sgarbiana Nave di Teseo, nata per protestare contro la vendita di Bompiani, che piuttosto facilmente s’è guadagnata spazio e visibilità nelle nostre librerie. Nel contesto dei libri dedicati alla nostra giovanissima Trieste e al suo meno giovane territorio, nel corso degli ultimi anni, La città interiore va annoverato, assieme a Come cavalli che dormono in piedi di Rumiz, tra i risultati di maggior interesse; per tutta una serie di buone ragioni mi sono trovato più a mio agio nelle pagine di Rumiz, storicamente più equilibrate, veridiche e coraggiose, etnicamente non meno complesse. Non si può però negare che l’ultimo Covacich è degno di studio, meditazione e interiorizzazione; non è un capolavoro, non è fondamentale, non è lineare, e tuttavia è espressione di vivacità, e di una inattesa serenità nel disordine. Balcanica.

 

 

 

Copertina:

 

Mauro Covacich

La città interiore

La Nave di Teseo

Milano 2017

  1. 244, euro 17,00