LA DANZA DELLE OMBRE

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Tradotto in italiano un altro romanzo di Aloijz Rebula

 

 

La Danza delle ombre (Senčni ples, 1960) di Aloijz Rebula è stato pubblicato in traduzione qualche mese fa dalla casa editrice triestina Mladika, cui va il plauso per aver condotto in porto questo progetto di non poco conto pur con qualche inevitabile imperfezione, che comunque si sorvola senza alcuna remora.

Il romanzo è considerato tra i più importanti della produzione rebuliana, ma si colloca ai suoi esordi e di per sé un po’ acerbo, non tanto dal punto di vista contenutistico, quanto nell’organizzazione dei contenuti: vi sono degli evidenti squilibri nell’impostazione dei personaggi, nelle loro entrate o nell’approfondimento della loro psicologia; alle volte ci s’imbatte in scene che sembrano non avere alcun peso nell’economia narrativa e appesantiscono inutilmente l’intreccio; compare anche qualche stereotipo fastidioso che, a onor del vero, stenta ancor’oggi a morire; in cert’altri casi, per esempio, disturba un ampio e ingiustificato utilizzo della reticenza, figura retorica peraltro molto preziosa… Tuttavia, queste pecche organiche, più o meno veniali, si discostano alquanto dalle vette toccate dall’autore nelle sue opere più tarde. Vale quindi la pena di non soffermarsi troppo sulle insicurezze per concentrarsi sulla visione d’insieme: La danza delle ombre contiene tutti i semi della poetica rebuliana che si vedono poi germogliare e crescere rigogliosi nei romanzi successivi, più strutturati e valevoli, di cui la critica slovena loda l’indiscusso primato.

Quest’opera giovanile, dagli ampi tratti autobiografici, racconta la Trieste dell’immediato dopoguerra. La città viene presentata da una prospettiva particolare e insolita per un lettore italiano, vale a dire tramite gli occhi della minoranza slovena che all’epoca si ritrovava coinvolta in dinamiche politiche,storiche ed economiche che ne minacciavano seriamente l’esistenza. Da questo punto di vista il lettore italiano verrà sorpreso in più modi: sbaglia di grosso chi pensa che la Trieste del 1950 fosse una qualunque città italiana! Innanzitutto ad amministrarla era il Governo Militare Alleato e, in secondo luogo, era alle prese con problematiche sconosciute al resto d’Italia che continuano a segnarne innegabilmente il destino. Oltre alla precaria condizione della minoranza slovena sul confine italiano orientale (tema che permea tutto il romanzo), qui si affrontava anche l’esodo istriano-fiumano-dalmata che interveniva a inasprire un contesto sociale già solcato da immense lacerazioni. Per completare il quadro si aggiunga la massiccia emigrazione della popolazione giuliana verso l’Australia, un fenomeno caratteristico che si verificò certo per ragioni di natura economica, ma anche per sfuggire a una situazione politica che definire instabile è un eufemismo.

In questa cornice sfaccettata si dipana la vicenda personale di Silvan Kandor, un giovane intellettuale sloveno rimasto vedovo a soli ventisei anni, che torna nella casa paterna sul Carso, dove vive con la madre Zofija e i due fratelli Sandro e Berto. Lo accompagniamo dunque nella disperata ricerca di una scappatoia dal nichilismo in cui l’ha precipitato la prematura perdita di Nadja, il suo grande amore. Se dapprima trova impiego come insegnante di letteratura slovena, ben presto abbandona la scuola per diventare traduttore negli uffici dell’amministrazione anglo-americana. Ma queste banali attività sembrano non aiutarlo a risalire il burrone della profonda crisi esistenziale in cui è precipitato, anzi, per certi versi ne acuiscono alcuni tratti.

L’unico appiglio sembra essere la collaborazione con una rivista settimanale, espressione della comunità slovena, per la quale si impegna a stendere un feuiletton che tratti il tema dell’assimilazione ovvero dell’italianizzazione dell’elemento minoritario sloveno. Il processo creativo di una scrittura mai fine a se stessa, bensì votata a un fine etico-sociale, permette a Silvan di dare un senso alle sue giornate altrimenti monotone e insignificanti, quando non sfociano addirittura nell’assurdo. Ed ecco che si apre il sipario di un altro palco, dove si svolge il dramma di Jernej Jerobnik, uno sloveno carsolino che da ragazzo si trasferisce a Trieste e finisce col stabilirsivi, ma a caro prezzo: fagocitato dalla città, la sua individualità slovena si dissolve come un grano di sale nel mare della maggioranza italiana. Con lo stratagemma della storia nella storia, Rebula staglia un confronto tra il Carso e Trieste portando alla luce le sostanziali differenze di due mondi tanto distanti spiritualmente seppur così vicini fisicamente.

Ad ogni modo, nonostante tutti i suoi sforzi, Silvan Kandor stenta a riacquistare fiducia nella vita e non riesce a librarsi in volo, mancando, forse caratterialmente, della leggerezza e della vitalità che invece pervade il fratello minore Berto. Non lo aiutano certo i personaggi che gravitano attorno al suo universo, ciascuno alle prese con una vita che sembra a volte insensata e sterile, a volte crudele e impietosa, altre ancora capricciosa e alienante.

Il più preminente è Sandro, fratello maggiore di Silvan che si guadagna da vivere con un lavoro di pesante fatica e che aspira a diventare dipendente delle ferrovie italiane. Non coronando il suo sogno, decide di emigrare in Australia abbandonando un ambiente che non gli ha offerto una vita dignitosa né come individuo né come sloveno. A differenza di Silvan, le cui radici sono caparbiamente abbarbicate alla sua terra, in Sandro riscontriamo l’esempio del tipo umano che si arrende alla vita e va a cercare fortuna altrove, essendogli matrigna la terra che gli ha dato i natali. Nell’Australia si riflette perciò l’immagine della Terra Promessa, un luogo dove poter dimenticare i fallimenti e ricominciare daccapo. Sappiamo che questo è un elemento autobiografico che però si risolse in maniera tragica: il fratello di Rebula, realmente emigrato in Australia, vi trovò la morte poco dopo il suo approdo.

Un altro personaggio rilevante è il prof. De Martinis, ebreo ed ex docente di filosofia che Silvan stima fin dai tempi del ginnasio. Silvan lo ritrova casualmente e riallaccia i fili di un rapporto interrotto per scoprire che il brillante professore è affetto da un cancro cerebrale – quando si dice l’ironia della vita – che lo sta consumando nel fisico e nell’anima. Eppure i due riescono a strappare alla malattia qualche scampolo di lucida e profonda conversazione.

Frequentando la casa del professore, Silvan impara a conoscere la figlia di questi, Nora: assistiamo a un faticoso e lento sbocciare di un nuovo sentimento d’amore per lei, sulle prime contrastato, respinto, represso, ma infine accolto come uno dei pochi punti luminosi in una vita altrimenti cupa e tormentata dall’angoscia esistenziale.

Il romanzo è attraversato da un clima di totale incertezza che lascia filtrare pochi spiragli di luce in una danza di ombre tenaci e alla fine sembrano perfino vincere, quando il protagonista svolta l’angolo e torna nell’oscurità. Questo cupo presagio che induce a supporre nell’amara capitolazione dell’individuo come essere umano e dell’intera comunità in cui è inserito verrà però smentito dai successivi romanzi di Rebula, molto più vitali, che si spera trovino presto una traduzione.

Va detto ancora che il tema centrale della produzione rebuliana è la condizione umana tout court e questo romanzo non fa eccezione. Naturalmente il lettore italiano lo leggerà in una chiave diversa rispetto al lettore sloveno: gli sfuggiranno molte delle sfumature insite nella vicenda e concernenti le problematiche della comunità minoritaria slovena o le sue battaglie per affermarsi, ma ne capterà tante altre relative ai destini degli esseri umani, simili in tutto e per tutto a prescindere dalla nazionalità cui appartengono, minacciati talvolta dalla storia, talaltra però da se stessi.