La danza macabra del Medioevo

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In un saggio di Chiara Frugoni, riccamente illustrato, indagate tutte le paure che afflissero l’umanità in quell’epoca

di Gabriella Ziani

 

Per fame, la gente si mangiava pure i parenti. Per paura di ammalarsi a morte abbandonava coniugi, figli e genitori appestati. Per il terrore degli elementi naturali credeva che il mondo stesso sarebbe stato inghiottito dalla furia di un Dio scatenato nella sua ira punitiva. Era il Medioevo, ma quanta eco di quel mondo disperato non sentiamo risuonare ancora oggi, in modo così inaspettato e duro, colpiti dalla pandemia mondiale di Covid 19? «Ho cominciato a scrivere questo libro dedicato alle paure degli uomini, delle donne e dei bambini nel Medioevo, nel 2019, non immaginando che mi sarei trovata a parlare di un passato così prepotentemente presente». Lo scrive la storica Chiara Frugoni nell’introduzione a Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, magnificamente edito dal Mulino così come i precedenti Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini, Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci, e Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali. I camion, carichi di cadaveri, che in colonna lo scorso inverno lasciavano una Bergamo devastata dal Covid 19, avevano una raccapricciante somiglianza con gli scenari apocalittici della peste che nel Trecento causò la morte di quasi metà della popolazione europea, sepolta in fosse comuni, mentre i sopravvissuti si scansavano senza pietà, perché il terrore prima di tutto uccideva ogni affetto e rispetto.

La coesistenza di immagini e tremori così distanti temporalmente (e l’assenza ieri come oggi di una cura) ha turbato questa eccezionale studiosa del Medioevo – delle storie sociali, delle cronache, e non certo da ultimo delle immagini e delle opere d’arte, visto che non c’è affermazione, resoconto o tesi che siano privi di riscontro iconografico, tra preziose miniature tratte da archivi e biblioteche di mezzo mondo, quadri, affreschi, bassorilievi, mosaici, pergamene, sculture, illustrazioni sacre e profane: una storia scritta, ma intrisa di centinaia di probanti e rare immagini. Con questo metodo la Frugoni ha realizzato anche studi fondamentali su San Francesco, di cui ricorderemo almeno Francesco e l’invenzione delle Stimmate. Una storia fra parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto e Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi (entrambi da Einaudi).

Siamo stavolta in un mondo diviso fra Paradiso e Inferno, dove le paure sono molte e terribili, e dove la Chiesa è il primo dispensatore di minacce e timori, una fabbrica di prospettive terrorizzanti sull’aldilà che avvolge popolazioni molto inermi dal punto di vista materiale, culturale e sanitario: paura della fine del mondo, dei segnali negativi che arrivano dal cielo, paura dell’ira di Dio che mai si placa, paura di arrostire all’Inferno coi demoni che divorano i corpi, e molto più concreta e immediata, la paura della fame, delle carestie, delle malattie, dello “straniero”, dell’avanzata di violenti conquistatori (i “tatari” devastatori che in effetti traslocarono la peste in Europa), di gente con la pelle scura ma anche degli ebrei e comunque dei “diversi” (razzismo bello e buono), e paura naturalmente delle epidemie dalle quali non c’era scampo, e altro non si trovava se non incolonnarsi in folte processioni penitenziali per implorare clemenza all’Onnipotente, creando assembramenti che – come oggi… – moltiplicavano il contagio e i morti, e facevano sembrare insaziabile la volontà punitiva di Nostro Signore.

Un esempio eclatante arriva già da epoche assai lontane. La miniatura francese del ‘400 La processione per la peste voluta da Gregorio Magno ci porta alla peste del 590, si vedono una madre e un frate crollare a terra nel pieno del corteo, e così un diacono col suo reliquiario. Ma l’ira tremenda verso gli umani si scatenò appunto nel Trecento, quando successive stagioni di clima “impazzito” distrussero i raccolti portando carestia gravissima, ci furono dissesti sociali e finanziari perché intanto le corti continuavano a spendere per guerre (fallirono a Firenze le famose banche dei Bardi e dei Peruzzi) e da ultimo si diffuse la più devastante epidemia di peste, bubbonica e polmonare, che fece strage. Nel Narodni Muzeum di Praga la Frugoni ha trovato un Codice del 1376, con la orribile immagine della Morte che strangola un appestato. «Il diffondersi dell’epidemia – scrive  – venne vissuto per tutto il Medioevo  come lo scatenarsi dell’ira di Dio, paragonata a saette scoccate dall’arco». Una suggestione culturale che si ritrova già nell’Iliade. Per questo Sebastiano, martire cristiano sopravvissuto al supplizio infertogli da Diocleziano che lo aveva fatto trafiggere da frecce, diventerà il santo protettore degli appestati, mentre la freccia resterà simbolo della furia divina scagliata sugli uomini con la malattia.

Resoconti di tragedie oggi inimmaginabili ci hanno lasciato i cronisti e testimoni dell’epoca, non solo il grande Boccaccio col Decameron, e Giovanni Villani (morto, egli stesso, di peste), ma anche il senese Agnolo di Tura detto il Grasso, che seppellì cinque figli e così raccontò: «El padre abandonava el figliolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro (…) e così morivano non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia». I corpi finivano in «grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti», e i cani li disseppellivano e se li mangiavano. I beccamorti e pure i frati chiedevano ai ricchi cifre enormi per entrare nelle case appestate. Un altro cronista, Marchionne di Coppo Stefani, raccontò il cinismo dilagava nelle famiglie, dove al primo segno di malattia uno diceva all’altro: «Vado a chiamare il medico», e invece se la dava a gambe per non tornare mai più, mentre il poveretto restava a morire e lo portavano via solo quando la puzza superava ogni limite tollerabile. Come sempre, si cercò un capro espiatorio. Migliaia di ebrei in tutta Europa furono massacrati e finirono al rogo, e già nel 1321 erano stati peraltro accusati di diffondere la lebbra – cui Frugoni dedica un altro esemplare capitolo.

La peste invece era arrivata (e lo raccontò il notaio piacentino Gabriele de’ Mussi in Historia de morbo sive mortalite del 1348) per colpa dell’azione bellica mossa dai tatari (mongoli) che assediavano la città di Caffa in Crimea dov’erano bloccati molti mercanti anche italiani. Colpiti dalla peste, i feroci guerrieri con gli occhi a mandorla morivano come mosche, e per non saper più che fare catapultarono i cadaveri nella fortificazione, e gli assediati sconvolti e malati li buttarono a propria volta in mare, avvelenando l’acqua. Alcuni riuscirono tuttavia a scappare, toccarono molti porti, approdarono in Sicilia, a Genova, a Venezia, e abbracciando famiglie e amici trasformarono il felice ritorno nella più spaventosa epidemia della storia. Pure il notaio, comunque, era convinto che il Male fosse il segno dell’ira divina, un compimento dell’Apocalisse che preconizzava la fine del mondo.

Ma anche senza malattie, sopravvivere era un’impresa. Frugoni cita un teologo del XII secolo, Onorio Augustodunense, secondo il quale Dio creò lo stimolo della fame solo perché l’uomo, caduto in disgrazia, fosse costretto a lavorare duramente per conquistarsi il regno dei cieli, «questo vale naturalmente – scrisse il saggio – solo per gli eletti, perché per i dannati il lavoro è solo condanna e pena». E lo era: per chi lavorava la terra con pochi strumenti e scarso raccolto, dovendo pagare altissime decime, muovendosi in terreni privi di strade e senza mezzi per conservare lo scarso cibo, la fame era “un’ossessione”, così quando una prima volta nel 1005-6 (per cinque anni) e una seconda nel 1033 paurosi rivolgimenti climatici – e anche qui ci ritroviamo… – azzerarono i raccolti si ebbe una tragica carestia di cui un cronista, Rodolfo il Glabro, lasciò spaventose testimonianze: «Era una fame orrenda che induceva a nutrirsi  non solo con le carni di animali schifosi e di rettili, ma perfino di uomini, donne, bambini, senza riguardo neppure per i più stretti legami di sangue. Giacché la violenza della carestia  giunse al punto che i figli adulti  mangiavano le loro madri, e queste, dimentiche dell’amore materno,  facevano lo stesso coi propri bambini». Vi sono manoscritti miniati che illustrano l’atto di divorare braccia e gambe dei propri simili. Tanto che il celebre episodio del conte Ugolino che prigioniero nella torre si nutre infine di figli e nipoti morti («poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno») sembra non tanto una infernale invenzione di Dante quanto un’eco di fatti noti.

In questo mirabolante viaggio di storie e figure ci limitiamo per forza di cose a segnalare solo alcuni due altri punti focali, raccomandando al lettore di non perdere tutti gli altri, non meno eccezionali e interessanti per testo e per immagini. E torniamo al ruolo della Chiesa, che già si era incaricata di prefigurare tutte le peggiori pene e torture che sarebbero toccate all’Inferno, dove fino alla fine del XII secolo la gente era sicura di finire in massa essendo «l’accesso al paradiso quasi impossibile»: eccezionale (Frugoni vi dedica ben venti pagine con encomiabili riproduzioni di dettaglio) è in questo senso il timpano degli inizi del XII secolo che sovrasta la porta d’ingresso dell’abbazia di Sante Foy (Santa Fede) a Conques, in Francia, uno degli innumerevoli Giudizi universali, ma stavolta quanto mai esplicito, vi son ben 124 personaggi scolpiti con abbondanti “didascalie”. Quando invece la gerarchia ecclesiastica introdusse nel sistema dualistico dell’aldilà formato da Inferno e Paradiso un luogo chiamato Purgatorio, sosta di mediazione tra Bene e Male, la gente capì che una piccola speranza di non finire torturati e bruciati forse c’era, e la Chiesa però si accorse che si allentava così la sua presa, che l’artiglio pungeva di meno, e temendo che la fine della paura determinasse un licenzioso dissolversi di timor di Dio e severi costumi, cambiò strategia. Fu lì che alla paura dell’Inferno sostituì la paura della morte, inaugurando la stagione del “macabro”, con sequenze didattiche di teschi e scheletri a minacciare i viventi: non guardate alle cose di questo mondo, ma al vostro destino. Esempio sublime gli affreschi del Camposanto di Pisa, ma quanto rimarchevoli certe illustrazioni da manoscritti, come L’incontro dei tre vivi e dei tre morti del 1340, o la Danza macabra di Giovanni Busca a Clusone (Bergamo), che è solo una delle tante “danse macabre” che popolano le nostre storie dell’arte.

Ma le paure non andavano appunto solo in senso verticale, e se già la terra sapeva essere matrigna e pericolosa, anche gli altri viventi non erano da meno. Gli esseri di pelle scura erano, nel Medioevo, paragonati al così pervasivo demonio. Solo alla fine del Medioevo uno dei Re Magi fu rappresentato “nero”.  La gente di “pelle nera” – come si evince da una sorta di guida turistica del XII secolo per chi andava in pellegrinaggio a Santiago di Compostela – era di per sé «depravata, perversa, perfida, sleale, corrotta, libidinosa, amante del bere, esperta in ogni tipo di violenza, feroce, selvaggia, disonesta e falsa, empia e rozza, crudele e attaccabriga, ignara di ogni buon sentimento, maestra di tutti i vizi e tutte le iniquità». Mentre noi vorremmo perfino complimentarci per tanta ricchezza di vocabolario, Frugoni commenta: «Una descrizione […] non molto diversa da quella che abbiamo ascoltato anche ai nostri tempi rispetto alla possibile invasione straniera… ».

In una miniatura del 1370 eseguita per Carlo Magno i saraceni sono dipinti come orrendi diavoli, per di più scuri di pelle, e «per secoli la Chiesa – scrive l’autrice – non offrì alternative ai musulmani: o il loro annientamento fisico o la conversione imposta». La coesistenza era particolarmente spinosa in Spagna, dove dalla seconda metà del XII secolo «si erano insediate le dinastie musulmane berbere degli Almoravidi e poi degli Almohadi». In più c’erano gli schiavi negri. Una storia illustrata nelle Cantigas di Alfonso il Saggio (1252-1284) non potrebbe essere più illuminante circa l’aberrazione cui era giunto il connubio di terrori umani e sacri. La vignetta narra e descrive una suocera che spedisce uno dei suoi servetti neri a dormire con la nuora, e che nel contempo denuncia il fatto al figlio e marito. Donna e moro vengono condannati al rogo (innocenti). Quando i due corpi sono già lambiti dalle fiamme, appare la Madonna e salva soltanto la fanciulla bianca, lo sventurato nero arde e muore.

C’è una morale in tutto questo? La chiusa che Frugoni sceglie per il suo libro è pacata e amara: anche oggi molti muoiono per malattia incurabile, anche oggi molti fuggono dalla città ammorbata e credendo di salvarsi altro non fanno che diffondere il contagio, anche oggi si grida al complotto sull’origine del virus, e anche oggi pur non credendo che sia Dio a scagliarci le sue maledizioni c’è qualcuno (negli Stati Uniti) che ha teorizzato la ragione per cui gli ebrei si ammalano di Covid: «Sono castigati per essersi opposti a Cristo». Conclude la storica: «Gli uomini medievali, così lontani, così vicini».

 

 

Chiara Frugoni

Paure medievali

Epidemie, prodigi,

fine del tempo

Il Mulino, Bologna 2020

  1. 400, euro 40.00