La funzione S.

A un secolo dalla Coscienza di Zeno continuiamo a individuare altri aspetti, nessi e rimandi nel capolavoro dello scrittore triestino

di Fulvio Senardi

 

Piacevole aria di famiglia nella raccolta dei contributi che Riccardo Cepach dedica ad Italo Svevo (La funzione S. E altri esperimenti di critica sveviana, Cesati editore). Vi confluisce il meglio della sua recente saggistica nell’arco che va dal 2008 all’inedito che chiude il volume. Aria di famiglia, ripeto, e non solo per l’autore messo a fuoco, ormai una stella fissa nel grande canone occidentale e in quanto tale letto e studiato dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno (per tacere del Nuovo Continente, dell’Estremo Oriente, ecc.) No, non solo per questo: Cepach fa critica letteraria come vorremmo che essa sempre fosse, con i giusti rimandi in nota, facendosi carico dei suoi debiti, in un’epoca in cui il saggismo, con l’alibi di una facile leggibilità, spesso si muove su terreni ampiamente sondati come se avesse scoperto nuovi continenti. Guardiamo in faccia la realtà: in tutti i campi dello scibile siamo, in questo terzo millennio dell’era cristiana, nani sulla spalle di nani (i giganti si sono estinti da molto tempo) e il minimo che si debba fare è il gesto di umiltà di riconoscere i meriti dei compagni di strada e, se ce ne sono, di qualche nostro maggiore.

Detto questo non sarà superfluo ricordare che Capach è da tempo immemore (non se ne adonti, la vecchiaia non è un vizio) il conservatore del Museo sveviano presso la Biblioteca Civica (non sono sicuro che sia questa la qualifica istituzionale, ma il concetto è chiaro) ed ha quindi una prospettiva panoramica e una conoscenza dei manoscritti, dei testi pubblicati, della bibliografia critica assolutamente impareggiabile. Magari qualche cosa (mettiamo, dalle parti di Ulan Bator) può essergli sfuggita, ma assai poco d’altro. C’è anche, ovviamente, un rovescio della medaglia: la competenza vastissima quanto a fonti, rimandi, parentele può ribaltarsi in zavorroso enciclopedismo, rendendo a volte meno perspicua la perpendicolare dell’analisi; ne scaturisce un gesto critico che fa più pensare a un capitello corinzio che alla linearità delle forme doriche. Può piacere, può non piacere, questione di gusti (e di pazienza); del resto il “rizomatico” va di moda nel post-postmoderno. Peraltro Cepach sa benissimo – da “discepolo” oltre che studioso di Svevo – che la linea più breve fra due punti non è la retta, ma il zig-zag, altrimenti la tartaruga (di Zenone si scrive spesso in questi saggi) potrebbe precederci alla meta. Ma Svevo insegna anche che non importa il punto d’arrivo, quanto piuttosto il percorso: si rilegga Corto viaggio sentimentale con quella conclusione a Trieste così ipotetica ed esitante. Grazie, mi si dirà, è un racconto incompiuto! Ammetto, ma nessuno potrà obiettare che in quel caso, più delle stazioni che ritmano il viaggio, contino gli scontri ed incontri in itinere (la parola abracadabra delle circolari ministeriali, ma che qui non stona).

In questa luce, emblematico l’ultimo saggio della raccolta (La funzione ESse), quello che meglio esprime le conclusioni provvisorie del saggista rispetto al caso Svevo nel suo complesso. Pagine mosse dalla finalità di sostenere una propria ipotesi (avanzata peraltro con spiritosa autoironia, assumendo il ruolo del “fanta-filologo”), ovvero che: «l’ultimo apocalittico paragrafo» sia stato aggiunto dal dottor S., «per far deflagrare la minacciosa parola del suo paziente e ridurla a un balbettio incoerente» (145); se, nella fattispecie, l’interpretazione non (mi) convince, è al margine, o di corollario, che si leggono le osservazioni più interessanti (e, credo, ampiamente condivisibili), in particolare sul percorso psicologico-estetico dello Svevo scrittore, in forza del quale «la messa in discussione della funzione giudicante» (quella faglia interna alla narrativa sveviana, così evidente nei due primi romanzi, e che espone i protagonisti al sarcasmo tagliente del narratore) «avvia un processo di rivalutazione, […] di più ampia e umana comprensione del personaggio protagonista» (158), disseminando «tracce di una pacificazione» (160) che rendono «Zeno meno odioso di Emilio e meno patetico di Alfonso» (158), in evidente contiguità con «quel personaggio che si costruisce passo passo nelle carte ‘private’ di Svevo» (162). Parole sante.

Detto questo sarà bene dare un’occhiata veloce al libro, saggio dopo saggio, per evidenziarne alcuni risultati. Il primo, Passeri e fantasmi (il più “antico”, gli altri seguono secondo criterio cronologico) documenta, anche avvalendosi di qualche recente acquisizione archivistica, la passione sveviana per scienze che ancora scienze non erano (come peraltro la psicologia del profondo nell’ultimo Ottocento), e che spesso “scienze”, a rigor di termini, mai sarebbero diventate; discipline dallo statuto ambiguo e di collocazione marginale rispetto al main-stream positivistico: nel caso specifico l’occultismo (di cui però si occupò anche Lombroso, che qualcosa ha contato sull’orizzonte scientifico dell’ultimo Ottocento). «Sopravvivono», spiega Cepach a proposito di Svevo, «tracce di un suo possibilismo, di una sua attenzione al fenomeno non del tutto demolita dalle ‘rane’ del dubbio razionalista» (31), un campo di ricerche, riflessioni e fantasie dove lo scrittore si dimostra semmai incline, come nel maestro Schopenhauer, a «una cauta sospensione del giudizio» (34). E se il saggista fa assai bene a chiamare in causa Schopenhauer, che per Svevo c’entra quasi sempre («il primo che seppe di noi»), perché non gettare uno sguardo anche ad Eduard von Hartmann, che scrive nel 1885 Spiritismus, opera centrale (con la sua impronta scientistica, fortemente limitativa delle pretese spiritualistiche avanzata dai cultori della metapsichica) nella riflessione tedesca di fine Ottocento intorno ai fenomeni dell’occultismo? Che sarebbe anche un modo per richiamate gli svevisti ad aprire un capitolo fino ad oggi troppo trascurato (se non per scarsissimi accenni), quello, per chiarire, del rapporto tra Svevo e von Hartmann, un pensatore amato da Jung ma spedito in soffitta ai giorni nostri, e che suscitò invece nel secondo Ottocento una vivace fiammata di interesse, soprattutto grazie al suo Philosophie des Unbewussten, 10 edizioni in vent’anni a partire dalla prima del 1869, e traduzioni in francese, inglese, ecc. (ma non in italiano). Con il suo pessimismo che riprende il nucleo etico di Schopenhauer ma ne rimodella la “ragion pratica” (non si assegna all’ascesi il compito di annullare la Volontà ma a un non ben definito annullamento collettivo che vedrà l’umanità tutta rinunciare a vivere) traccia un solco che conduce, così qualcuno dei suoi esegeti, fino a Sigmund Freud.

Di malattia e salute scrive il secondo saggio, il più ampio del volume, già apparso in un libro monografico, Guarire dalla cura, del 2008. Vi si affronta un tema cruciale della riflessione sveviana, lungo la parabola che dalla convinzione di una propria patologica insufficienza rispetto al mondo della salute, quale si legge nelle prime pagine di diario (un «impotente», scrive di sé nel 1902, che solo con la penna può aprirsi un varco di conoscenza verso «il fondo tanto complesso del mio essere») e che così bene si incarna nei personaggi dei suoi romanzi ottocenteschi, giunge fino alla rivendicazione, nel 1927, della malattia come ciò che di meglio possiede l’umanità. Tra i due margini temporali una sfilata infinita di dottori, sintomi, cure, riflessioni focalizzate, letture mirate ed opere. Un crinale seghettato, pieno di trappole e di sentieri tortuosi sul quale Cepach ci fa assai bene da guida. Concludendo, con Zeno, che esistono “malattie” (ovvero particolari costituzioni psico-caratteriali apparentemente svantaggiose) che conducono alla vittoria nella lotta per la vita.

Di relatività e di scienza tratta invece il saggio seguente che si inoltra, prendendo occasione da qualche ironico appunto sveviano sulla teoria della relatività, sul terreno del «fraintendimento creativo» (82) da parte di un geniale dilettante delle teorie scientifiche di volta in volta alla moda. La frase più volte citata di Soggiorno londinese è quella che meglio esprime la consapevolezza sveviana di un rapporto doppio, insieme di inferiorità e di superiorità, della letteratura rispetto alla scienza: «Noi romanzieri amiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle. Le falsifichiamo ma le umanizziamo».

Un preludio che prepara benissimo al saggio che segue, sui Paradossi temporali nella narrativa di Svevo. Dove entrano in scena Herbert Wells, probabilmente conosciuto, Bergson, sempre trascurato, e Basedow e Oblomov come segnacoli di due modi differenti di vivere la vita, nella velocità (intraprendenza, gusto della sfida, capacità di mettersi in gioco) o nella lentezza (flemma, avarizia, risparmio di sé, noia e sbadiglio), con la salute che si trova al mezzo e rappresenta, riflette Zeno, solo “una sosta” nell’oscillazione costante tra instabilità ed equilibrio. Tutt’altro discorso quando si viene, nel nuovo capitolo, al «triste animale guerresco», di cui Svevo, dalla Trieste pressata da vicino dall’esercito italiano, nell’anno dell’aggressione all’Impero austro-ungarico, aveva potuto vedere e valutare le truci imprese. Da quella esperienza di amareggiato spettatore degli ultimi giorni dell’Europa civile scaturisce un saggetto sulla pace, di cui il triestino scrive ad alcuni corrispondenti nel ’23 e nel ’25. Giustamente Cepach mette in rilievo due aspetti del contributo sveviano giuntoci mutilo (con i giusti rimandi allo stato dell’arte, quanto a riflessione pacifista, negli anni della vigilia della guerra): da un lato, il rifiuto senza compromessi della guerra («la guerra è e resta una cosa turpe per ogni uomo equilibrato e morale», si legge in un frammento che a quel saggio incompiuto certo attiene), e non è poco per un intellettuale che pure ammetteva darwinisticamente lo “struggle for life” e che del concetto di “lotta” fa uno dei cardini della sua visione del mondo. Dall’altro un certo scetticismo riguardo alla Società delle nazioni (cui pure vorrebbe, faute de mieux, che l’Italia collaborasse), ben consapevole, da lettore attento di Machiavelli, che il destino dei “profeti disarmati” alla Savonarola è, ahimè, l’insuccesso (e che garanzie di preservare la pace nella giustizia potrebbe dare un’organizzazione internazionale che pure avesse dalla sua infinite buone ragioni, ma non un solo cannone?).

L’ultimo saggio che sfioreremo (Chi vuole che Argo menta?) mira a niente di meno che a elucidare, con belle immersioni nella disorientante intertestualità sveviana, il concetto di verità nella prospettiva volutamente paradossale in cui lo scrittore lo affronta, contrapponendo alla perfida astuzia dell’homo sapiens l’ingenua schiettezza del cane; e si viene dunque ad Argo, il protagonista a quattro zampe di una sapida novella, non la sola però dove il motivo canino venga tematizzato. Ricorderemo infatti il bel medaglione che Svevo dedica all’odorato del migliore amico dell’uomo in Corto viaggio sentimentale, il vertice di un sensorio che gli consente di percepire il mondo nella sua nuda verità. E che tuttavia lo predispone, per eccesso di fiducia, agli inganni e ai capricci dell’animale menzognero per eccellenza, l’uomo, perfettamente capace di menarlo per il naso. È evidente che qui è in gioco molto più della zoologia, ma il senso stesso del valore euristico della parola, letteraria e sociale, un tema sul quale, a partire dall’età post-positivistica, l’intellettualità europea non cessa di interrogarsi. Se il mondo vero è diventato favola, come preconizzava Nietzsche, un dato di fatto di cui noi facciamo costantemente esperienza (nella semiosfera satura di messaggi contraddittori e inverificabili che ogni giorno ci irretisce), dovremmo forse cercare una nuova nozione di verità, come postula con fare semi-ironico Cepach, nell’«indistinto della natura» (142)? Vi incontreremmo il buon selvaggio o il lupus dell’homo homini? Lascio aperta la questione, anche perché non avrei risposta, invitando a cercarla, in compagnia dell’autore, nelle pagine de La funzione S.

 

Riccardo Cepach

La funzione S.

E altri esperimenti di

critica sveviana

Cesati, Firenze 2023

  1. 174, euro 20,00