LUNATICO – Fare satira su un palcoscenico

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Intervista ad Alessandro Mizzi

di Adriana Medeot

 

L’appuntamento è al Caffè San Marco, dove arrivo con un certo anticipo. Alessandro Mizzi è seduto a un tavolo con Pino Roveredo, Stefano Dongetti e molti altri: riunione informale del Lunatico Festival? Riconosco, tra i tanti, il volto dolce e ironico di Lucia Vasini. Stasera presenterà il suo libro Nessuno dei due al parco di San Giovanni.

Alessandro Mizzi mi saluta. “Qualche minuto e sono da te.”

Qualche minuto mi torna comodo, riesco così a comperare un regalo per il compleanno di un mio caro amico: la scelta cade su un libro scritto da… un comune amico, si tratta di Pop-Ethics di Pierpaolo Marrone.

Ma ecco Alessandro! Toglie gli occhiali da sole e si siede vicino a me.

Quando hai capito che volevi diventare un attore? Ricordi un momento particolare?

Il ricordo è vago, ero un ragazzo, un adolescente. Andai al Rossetti a vedere – credo – Attraverso i villaggi di Peter Handke. C’era un attore che mi colpì molto, mi sembra fosse Giulio Brogi. Ma credo di avere sempre avuto questa predisposizione, anche da piccolo, con i compagni di scuola, mi piaceva raccontare storie.

Se non avessi scelto questo mestiere, cosa avresti voluto fare?

Non lo so, perché ho iniziato e dopo non ci ho pensato più. Mi piacciono però molti aspetti dello spettacolo, non solo recitare, ma mettere insieme le persone, dare vita a progetti. Con il Pupkin mi è riuscito proprio questo. Considero infatti il lavoro che facciamo – perché siamo una squadra – una specie di laboratorio teatrale e musicale permanente. Siamo una compagnia instabile – come amo definirla – che alla fine è diventata un’attività piuttosto stabile, giacché sono ormai quattordici anni che andiamo in scena ogni lunedì al Miela. Sai, mancava un appuntamento alternativo nel panorama culturale di Trieste. Abbiamo scelto il lunedì perché i teatri erano chiusi, ma è stato un azzardo. Non è facile far uscire la gente il lunedì sera d’inverno, invece ha funzionato. E poi la satira locale: non c’era. Abbiamo riempito dei buchi e ora possiamo dire di aver avuto ragione.

È vero, a Trieste non c’erano proposte di cabaret, in qualche modo si è colmata una lacuna. Ho notato che molti degli artisti ospiti al Miela e ora al Lunatico provengono dal cabaret milanese, in particolare dallo Zelig.

C’è un evidente rapporto culturale tra Trieste e Milano: molti artisti triestini sono diventati milanesi d’adozione (dai grandi Giorgio Strehler e Renato Sarti sino all’amico Paolo Rossi, monfalconese in realtà) e i milanesi hanno una certa curiosità nei confronti della nostra città, nonché una comune matrice austroungarica. Ho spesso collaborato con loro e così ho così avuto modo di portare a Trieste Paolo Rossi, Enzo Jannacci, Antonio Albanese, Maurizio Milani.

Nel corso degli anni poi, s’è creato un forte sodalizio con Paolo Rossi. Ci ha sempre stimolato a fare un lavoro culturale che partisse da Trieste, ma che avesse una valenza e un respiro internazionale. Così il Pupkin non è stato solo un appuntamento, ma anche una produzione, con Tingeltanz, un sunto della nostra cifra comica, siamo andati a Roma, a Milano, a Firenze.

Com’ è stato accolto il dialetto triestino?

C’erano solo alcune parti in dialetto, ma non ci sono stati problemi, anzi. Anche in questo caso Paolo ci ha aiutato a vincere un certo pudore. Anni fa egli unì due compagnie: il Pupkin di Trieste e la Baby Gang di Milano. Ne nacque la Confraternita dei Precari – così si chiamava – che ha messo in scena Il giocatore di Dostoevskij, in una versione pop, riscritta da Paolo. Nel testo c’erano molte battute in dialetto triestino. Quando abbiamo portato lo spettacolo al Piccolo di Milano, abbiamo visto che funzionava perfettamente, il pubblico si divertiva.

Ricordo che negli anni Novanta, allora presidente dell’Associazione Globogas, proponesti delle novità anche in campo musicale: a Muggia i Nirvana, al Castello di San Giusto Joe Zawinul, Ligabue, Vinicio Capossela.

Anche in questo caso c’era una lacuna da colmare, alcuni grandi nomi della musica non erano mai stati a Trieste; noi, quelli della Globogas, eravamo uno sparuto gruppo di giovani un po’ impavidi, con molte idee e senza danari, ma siamo riusciti nell’intento. E io ho imboccato la duplice strada di attore e organizzatore di eventi culturali.

Qual è stata la tua formazione di attore?

Giovanissimo andai a Roma, alla scuola di Alessandro Fersen, un grande che veniva dalla scuola russa, uno degli ultimi allievi viventi di Stanislawskij. In realtà, avevo già fatto esperienza per un paio d’anni con Claudio Misculin, con quella che poi si chiamò l’Accademia della follia; ho iniziato quindi proprio nel comprensorio dell’ex ospedale psichiatrico che in questi mesi ospita il Lunatico Festival.

La fucina degli attori non tradizionali triestini è in qualche modo passata per le esperienze teatrali che si svolsero nel comprensorio di San Giovanni; negli anni precedenti c’era stato Scabia, il passaggio del Living Theatre e di molti altri che hanno fatto scuola.

Sì, io sono arrivato dopo. Comunque c’era ancora grande fermento nell’ex OPP, c’era l’opportunità di fare incontri straordinari.

Oggi c’è il Lunatico Festival. Che nesso c’è?

L’intento è ricreare una situazione di effervescenza d’idee, di scambio culturale. Far rivivere questo luogo e raccontarne la storia, una storia eccezionale e internazionale. Puntare i riflettori sul posto da cui partì la rivoluzione basagliana non è casuale. Credo fortemente in questo progetto e nella sua continuità, affinché cresca negli anni, e possa diventare un’esperienza culturale unica.

È il terzo anno del Lunatico, vero?

Proprio così. Sta funzionando. C’è da dire che un festival si consolida se, oltre ad ospitare artisti, dà vita a delle produzioni. L’anno scorso il Pupkin e la Casa del lavoratore teatrale hanno organizzato un laboratorio residenziale. Insieme a Maurizio Zacchigna, Adriano Giraldi e Maria Grazia Plos abbiamo dato vita al progetto Orlando furioso in jazz, dal testo di Calvino, con musiche dal vivo, che ad aprile del 2017 debutterà al Rossetti. Una splendida occasione per provare, sperimentare, condividere la quotidianità, che ha portato a un risultato notevole.

Il Miela, di cui sei responsabile di produzione, viene definito Teatro instabile. Con Paolo Rossi hai dato vita alla Compagnia dei Precari: quanto pesa e quanto vale l’insicurezza, l’incertezza del futuro nel tuo mestiere?

Il vivere in una condizione senza certezze è insito nelle persone che hanno scelto di fare questo lavoro. Se non sei leggermente instabile non lo fai. È insieme estremamente difficile ed estremamente utile. Il Pupkin va in scena ormai da quattordici anni, è un piccolo grande successo della città: possiamo lavorare sulle nostre idee, sui temi che c’interessano, nel modo in cui vogliamo, se fossimo attori scritturati sarebbe diverso. Noi la crisi economica non l’abbiamo sentita perché per noi c’è sempre stata.

Tra teatro e cinema cosa scegli?

È molto diverso. Scelgo il teatro, certo un bel film nel ruolo di protagonista non l’ho ancora fatto, e mi piacerebbe. Ma è tutto un altro mestiere. A teatro sai dove sei e a chi ti rivolgi: il pubblico è la tua telecamera. Nel cinema devi stare tu a favore della camera. In televisione è ancora più complesso, perché hai una camera dietro, una davanti, una di fianco: non è facile recitare e creare il giusto impatto emotivo, ci vuole una grande esperienza.

Secondo Eugenio Barba non c’è libertà senza disciplina, ovvero per essere liberi è necessario essere disciplinati con se stessi, darsi delle regole ferree, per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Concordi?

Secondo me, esistono due tipi di disciplina all’interno del teatro: quella di gruppo e quella individuale. Un attore può anche essere uno spirito libero, un anarchico, ma per far funzionare una compagnia ci vuole rigore, ci vuole puntualità, dedizione e fondamentalmente è necessario che qualcuno comandi. Non credo che con genio e sregolatezza si possano raggiungere dei risultati. Bisogna presentarsi alle prove con una certa lucidità, preparati, sapendo la parte a memoria. Diversamente s’inficia il lavoro degli altri. Per me è importante il lavoro comune, la condivisione, anche se è necessario che ci sia chi tiene le redini.

Per gli spettacoli del Pupkin, quanto provate?

Massimo due giorni, il valore aggiunto è l’essere impreparati: è diverso costruire uno spettacolo con un mese di prove, comprendere il testo a fondo, lasciarlo sedimentare, altro è portare in scena immediatamente una notizia fresca, scrivere di getto le battute e proporle.

Quindi, tanta improvvisazione?

Cinquanta per cento d’improvvisazione. Noi facciamo meno prove che in un film porno…

Ecco, mi sono beccata (gratis) una battuta da autentico cabaret; ne sorrido ancora, dopo essere uscita sulla via Battisti.