La guerra di Camber Barni

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Tra storia poesia e testimonianza il primo volume della “Libreria del Ponte rosso”

Uno di coloro che seppero combattere la guerra in nome di forti ideali civili e politici

“I poeti dell’altra guerra furono Ungaretti, e su un altro piano (popolare) Giulio Barni”, scrisse Saba

di Luca Zorzenon

 

Quel piccolo gioiello-capolavoro di Giulio Camber (Barni) che si intitola La Buffa trova una nuova preziosa edizione per la cura e con un’Introduzione di Lorenzo Tommasini nei tipi della Libreria del Ponte Rosso, collana editoriale così inaugurata dall’omonima Associazione culturale triestina e di cui Walter Chiereghin nella sua Prefazione ci illustra gli intenti. Fulvio Senardi firma il saggio La Buffa, ovvero l’epica dei trinceristi.

Stante a tutt’oggi l’irreperibilità di un autografo originario, la novità del libro è nella ricerca condotta da Tommasini sulle edizioni precedenti dell’opera, confrontate dal curatore con scrupolo filologico e ricostruite in tutta la dimensione delle varianti, senza tuttavia appesantire il volume che rimane scorrevole alla lettura, se anche affrontata da un lettore curioso di scoprire la prima volta la poesia di Camber. Tommasini, tuttavia, offre un apparato critico importante e lo dispone all’attenzione dello studioso che volesse operare ricognizioni sulla genesi e la storia del testo e provarsi, anche in ragione di ciò, a trarne ulteriori considerazioni interpretative. Accanto all’opera più nota, Tommasini ci offre anche due appendici, che raccolgono l’una poesie della Buffa edizione 1920-’21 espunte poi nell’edizione successiva, l’altra liriche tratte da Anima di frontiera (All’insegna del pesce d’oro, 1966, per la cura di Vanni Scheiwiller), che ci testimoniano di esiti ulteriori della poesia di Camber Barni, nella evidente assimilazione di suggestioni crepuscolari o nel solco giocoso e dissacrante del primo Palazzeschi. E, tutte a lor modo legate ancora alla guerra, varrebbe la pena – cosa che qui non si può fare – porvi attenzione. In Quando ritorneranno (1914), ad esempio, è significativo, vista la data di composizione, – la guerra al suo inizio – il tema (davvero storicamente molto lungimirante!) dell’immaginazione di una folla di reduci che ritornino dai campi di battaglia a guerra conclusa, esausti e abbrutiti, ma pregni di un carico di violenza e di odio, lungamente introiettati nell’esperienza bellica, tale da sconvolgere e sovvertire tutte le regole della vecchia società e da incrinare il sogno di un dopoguerra di pace finalmente restaurata.

Due le edizioni della Buffa pubblicate in vita dall’autore che Tommasini confronta, quella del 1920-21 sulla rivista triestina L’Emancipazione, di sentimenti repubblicani (cui Giulio Camber si sentiva legato), e quella in volume nel 1935, dalla struttura più articolata e di miglior disegno organizzativo nella disposizione delle singole poesie e della loro suddivisione in sezioni, con espunzioni ed aggiunte di testi rispetto alla precedente e una serie di interessanti variazioni testuali, di lessico e punteggiatura. E puntuale, anche, oltre la cura filologica, la lettura introduttiva che Tommasini fa della figura di Giulio Camber Barni e della sua Buffa (Giulio Camber Barni: settantacinque anni dopo), ad iniziare dalle parole di Franco Belli Giotti, figlio di Virgilio, che vede in Camber uno degli ultimi rappresentanti della generazione dei padri, di coloro che seppero combattere la guerra in nome di forti ideali civili e politici, mentre i figli, e Franco e uno dei molti fra essi, si trovano immersi in situazione storica ben diversa, di dubbio e disorientamento nella bufera della guerra fascista, e sentono l’eredità dei padri «nobile» ma anche «pesante» da allacciare e sostenere.

Giulio Camber, disertore asburgico e volontario nell’esercito italiano nella Prima guerra mondiale, nato a Trieste nel 1891, di guerre mondiali ne fece due: il ’15-’18 gli ispirò interamente la Buffa; nel 1941, all’impiego nel tribunale militare che doveva giudicare il comportamento dei soldati italiani nella guerra di Mussolini, preferì piuttosto il ritorno al fronte, dove (in Albania) in una caduta da cavallo trovò la morte a cinquant’anni. L’edizione della Buffa preparata da Tommasini si propone di rinnovare l’interesse per l’opera e per la figura di un poeta che, come afferma Senardi nella sua postfazione, appaiono (sia pur con notevoli, ma isolate e remote, eccezioni: Montale, Saba, Muscetta, Debenedetti) piuttosto trascurati nel complessivo panorama letterario nazionale, a partire dal naturale contesto storico-culturale di immediata pertinenza, ossia la letteratura della Grande Guerra.

E a tal proposito Senardi, constatando l’inserimento della poesia di Camber in un’importante antologia di poeti italiani della Prima guerra mondiale curata da Andrea Cortellessa (Le notti chiare erano tutte un’alba, 1998), esprime fondate perplessità sulla collocazione dei testi della Buffa entro la sezione tematica della “guerra-festa”, in «imbarazzante coabitazione con i futuristi»: nulla di giocoso, nessuna ludico-energetica, esaltante trasfigurazione dell’esperienza bellica, in Barni, e, semmai, commenta Senardi, «macerazione, ascesi, senso del dovere che tasta ogni volta i suoi limiti, li trova, li supera nella stoica e mai facile accettazione di un destino.»

Qui incontriamo una delle prime questioni interpretative che ancora si svelano appassionanti alla lettura della Buffa, per quegli aspetti – e non da poco visto che coinvolgono risvolti tanto tematici quanto formali della sua poesia – che ne fanno un unicum nella coeva letteratura di guerra. Si vuol dire dell’eterogeneità dei toni lirici che si snodano nell’opera: rispecchiamento di una varietà di esperienze, riflessioni e sentimenti della e sulla guerra che nella poesia di Barni coabitano assieme in una loro particolare unità di equilibrio. L’epico-popolar-comunitario e la commozione lirica, il quotidiano e l’eroico, l’elegiaco e il comico, il vitalismo di ordine etico e la rassegnazione dolorosa alla sofferenza della trincea fino a qualche raro cedimento al cupio dissolvi, offrono nella poesia del soldato-ufficiale Barni (il nome di battaglia scelto dal volontario Giulio Camber) un gioco di spinte e controspinte che tende in forme autenticamente originali all’unità nella varietà: e non certo in nome della “guerra-festa”, bensì di una visione della guerra non come esperienza eccezionale in sé e per sé, momento supremo e unico di gloria o di disonore, di fede o tradimento, di esaltazione o di vile codardia, o ancora come occasione straordinaria di estetizzazione della vita-evento in un momento di generale difficoltà e di ri-orientamento del mandato sociale e civile degli intellettuali-letterati ma, semmai, nella costruzione di una visione prismatica e multilaterale del suo dramma umano, nello spazio e nel tempo di un dovere collettivo, mai messo in discussione da Barni nei suoi ideali di irredentismo risorgimentale, che si rivela poeticamente espresso nei tanti ritratti dei soldati della buffa (la fanteria), negli schizzi di episodi e comportamenti, esaltanti o commoventi, epici o comici, che nascono da una misura sempre umanamente quotidiana dei suoi interpreti e dei loro atteggiamenti. Non una semplicistica umanizzazione della guerra e nemmeno, direi, un’intenzione ideologica di velamento dei suoi aspetti più brutali e truci (come sembra proporre Senardi), ché a Barni non interessa la dimensione descrittivo-realistica di un Carlo Salsa, poniamo; ma, a pensarci, piuttosto un sottintenderla, nei cenni alla violenza estrema che pur vi sono, per dispiegarvi sopra quelle istantanee (è il titolo di una delle più felici sezioni della Buffa) che colgano gli strumenti umani e comuni e quotidiani, vari e diversi, con cui il soldato di un esercito non professionale e ormai di massa affronta un’esperienza così tragica. Un esercito di “fantaccini”, lavoratori e contadini, dalle provenienze regionali le più varie, riflesse nella costruzione da parte di Barni di un lessico popolare anche dialettalmente mescidato.

Ora, proprio la mescolanza pare cifra molto significativa della Buffa: mescolanza di generi e di toni e mescolanza di linguaggio e lessico (dal rifacimento dialettal-popolare, all’eco colto), mescolanza che è la prima misura di una poesia che pensa se stessa e si costruisce niente affatto e solamente con semplice e immediata ingenuità popolare, come ebbero già ad avvertire Debenedetti e Montale.

Se l’unità generale a livello dei contenuti è raggiunta in quella dimensione di quotidianità alla cui luce l’atto eroico quanto il vile, il dolore e l’umorismo, il coraggio e la paura, la consapevolezza dell’ufficiale e l’immediatezza popolare dei fantaccini si distendono nei limiti dell’umano, variegatissimo ma mai eccedente la sua dimensione comune di terrena fragilità, sul piano formale vi corrisponde un principio di centralità metrica capace anch’esso di esprimere la variazione dentro l’unità. In particolare, vi corrisponde la scelta di un range nella misura del verso che oscilla normalmente fra il senario e l’ottonario con prevalenza centrale (e classica) dell’asse mediano costituito dal settenario, fra non tante eccezioni in carenza o eccesso. Misura dei versi, da giocarsi – in particolar modo, tradizionalmente, il settenario – sulla loro libertà nella disposizione degli accenti, sì da poterli piegare a ritmi e cadenze molto diversi, di regolare cantabile epica popolare, con talora qualche brusca infrazione ritmica interna (variazione che si riscontra in generale anche nell’uso sapiente e non vacuamente obbligante delle rime), così come in più distese situazioni liriche ed elegiache, nello schizzo variegato della ritrattistica umana o nell’irruzione dell’occasione comica, o ancora nel ripiegamento di certi momenti di pensosa, malinconica riflessione.

Altra questione, ben evidenziata nei loro interventi critici da Tommasini e da Senardi, quella della dimensione epica («popolare» o «popolaresca»?) della “guerra di Barni” e della sua “fanteria-Buffa”. Questione che fa parlare Senardi, anche a proposito dell’assenza nella poesia di Camber di accenti di odio e sprezzo del nemico, di uno spirito da epica cavalleresca, «forza mitografica», «vivido riflesso della «gran bontà dei cavalieri antiqui», o, in altro contesto di discorso, gli rievoca l’intuizione che fu già di Ariosto, al tempo dell’invenzione delle armi da fuoco, di una modernità della guerra che diviene nemica di ogni valore classicamente eroico.

In questo suo ritentare un margine di epicità, e di spiriti “cavallereschi”, nella guerra novecentesca di massa e di sterminio, consiste per Senardi l’incomprensione o forse piuttosto la rimozione, e relativa sublimazione, di Camber del disumanizzante «macello industriale». Il che indubbiamente è certificabile alla lettura di una poesia che evita «ogni riferimento all’orribile e inusitata specificità del conflitto tecnologico». Lo spirito “epico-cavalleresco” di Camber, nella cifra della mescolanza tipica della Buffa, ci ricorda tuttavia che il genere poetico nel grande momento storico del suo primo ripensamento/rifacimento umanistico-rinascimentale, che complica e trasforma la chanson de geste medievale, si nutriva di forme sperimentali di intreccio, sia contenutistico che linguistico, del “sublime” e del “basso”, dell’aulico e del popolaresco, del drammatico, del lirico, dell’elegiaco e delle controspinte del comico e della visione umoristico-ironica. E mi pare questa una cifra possibile dell’attualizzazione “epica” novecentesca della guerra di Barni.

Se poi si vuole invece scoprirvi anche il cenno al «macello industriale», per quanto ellittico e non diretto, possono soccorrere molte liriche della Buffa, specie quelle non casualmente agglomerate nella sezione ben intitolata Istantanee: brevi ma intensi ritratti umani in “tempo di esposizione” necessariamente rapidissimo poiché strappati dentro un tempo e uno spazio più vasti, la guerra, in cui l’umanità viene infranta con quella tecnologia che spesso polverizza le identità e non restituisce nemmeno più il corpo. Storia e mito del milite ignoto, nascono da qui, nel dopoguerra, in tutta Europa. È qui che i ritratti in istantanea di Camber di umili fantaccini, e persino di qualche rassegnato e impaurito animale (muli, cani), forse velano ma forse anche, a lor modo, svelano l’atrocità spersonalizzante della guerra moderna, quella morte di massa dalla cui anomia l’istantanea della poesia che nasce dalla sua esperienza si illude di avere ancora, modernamente, la possibilità di preservare. Ritratti che sono frammenti, ove si colga ancora in scorcio la figura umana unitaria capace di esprimere un senso, in un gesto, in un volto, in una fisionomia, in qualche parola, in un sentimento (egualmente: di coraggio o di paura). E, naturalmente, in Camber, troppo consapevolmente lontana, questa funzione della poesia pur così tradizionale, dai tempi in cui poteva fregiarsi di saper interrogare e tramandar lezione delle poche, alte «urne dei forti», o di illuminare di splendore, seppur tragico («Ahi vista, ahi conoscenza!») il duello notturno e deserto di Clorinda e Tancredi.

Senza intenzioni demistificatorie dei valori di unità e coscienza nazionale interpretati alla luce dei suoi ideali repubblicano-risorgimentali, il “plotonista” Barni è personaggio anch’egli tra i personaggi popolari della sua fanteria/Buffa. Un personaggio che si autoritrae anch’esso, fuor da complicazioni intellettuali, rifrangendosi nelle sue istantanee di episodi, atteggiamenti e umanità di umili soldati, in un difficile, sofferto, talora amaro ruolo di collante e garante di quei valori, interpretati anche dentro un epos minimo, popolar-comune, ma non perciò poco solido e meno cantabile. Lo fa nelle vesti di ufficiale subalterno che condivide con i suoi fantaccini il fango e le bombe, lo fa in quelle di poeta, non solo nostalgico di un’epicità ottocentesca in reazione a quella enfiata di estetismo nazionalista di un D’Annunzio, ma anche consapevole della ricerca della via di una parola poetica che possa esprimere i valori popolari e comunitari di un più moderno “eroismo” anti-eroico: fino alla punta di poesia surreale della Canzone di Lavezzari, che richiama in vita un Garibaldi democratico nella lotta per la libertà di ogni popolo, se anche la camicia rossa nelle trincee del Podgora va portata ben sotto un panno grigio-verde che deve apparire indistinto ed uguale in tutti e per tutti.