Vampiri e altre ossessioni

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Emilio de Rossignoli, Ornella Volta: da Trieste sulle tracce di un mito

di Roberto Curci

 

«Per anni nella redazione di un settimanale ho lavorato fianco a fianco con un collega che credeva nei vampiri». Iniziava così, col botto, un articolo di Tullio Kezich apparso sul Corriere della Sera il 26 luglio 1992. Quel collega si chiamava Emilio de (o de’) Rossignoli, nobile o meno a seconda che al de venisse messo od omesso l’apostrofo. Nato a Lussinpiccolo nel 1920, era poi vissuto e aveva studiato a Trieste, dove suo padre Dino era stato preside dell’Istituto Nautico. Dopo una parentesi genovese si era installato negli anni Cinquanta nella “Milano dei giornali”, e ci stava comodo.

Ancora Kezich: «Il suo maggior talento lo manifestava come instancabile fucinatore di carta stampata: in mezzo ad articoli d’ogni genere e argomento, spesso firmati con eteronimi, infilava recensioni cinematografiche e oroscopi, novelle strappalacrime e gialli mozzafiato […]. A osservarlo perennemente chino sulla Olivetti si sarebbe detto che non avesse altro scopo nella vita al di fuori di scrivere di tutto e poi riderne».

Quando morì, nel 1984, le redazioni dei rotocalchi femminili Annabella e Novella 2000 si accodarono al necrologio familiare, rimpiangendo la perdita del prezioso collaboratore. In realtà, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, la produzione intensiva di de Rossignoli riguardò soprattutto il versante del giallo o del giallo-horror, con almeno una dozzina di titoli sfornati per le collane dell’editore Franco Signori: pseudonimi ingenui (Emil Ross, Martin Brown, Ed Rhodes…) e titoli effettistici (Bambole ardenti, Nuda per il lupo, Figlia del delirio, L’amante corrotta…). Un trionfo della Trivialliteratur che avrebbe reso felice il professor Giuseppe Petronio, all’epoca suo strenuo paladino.

«De Rossignoli si faceva serio – proseguiva Kezich nel suo articolo – solo quando discettava autorevolmente di cripte e sarcofaghi, morti viventi e paletti di frassino…». Allora i colleghi gli si affollavano attorno e lo stavano ad ascoltare, attenti e perplessi. Grande fu comunque la loro sorpresa quando, finalmente a suo nome e per i tipi di un editore improvvisato, l’artista milanese Luciano Ferriani, e tuttavia con dignitosissima veste grafica e tipografica, uscì – anno 1961 – il saggio-pastiche provocatoriamente intitolato per l’appunto Io credo nei vampiri, un denso e frastagliato itinerario tra folclore, letteratura, cinematografia, fiction e autobiografia, che negli anni sarebbe risultato, oltre che una quasi introvabile rarità, un imprescindibile libro di culto e di riferimento per quanti – studiosi più o meno eminenti o semplici curiosi del fantastico – si sarebbero da allora in poi interessati all’inquietante argomento.

Ovviamente Io credo nei vampiri risentiva del clima dell’epoca, dopo che nel 1958 era apparso sugli schermi e aveva affascinato (o terrorizzato) il Dracula di Terence Fisher, con Christopher Lee ineffabile protagonista. Ma il librone di de Rossignoli era, anche, una sorta di risposta editoriale a un’altra immersione nel mito del vampiro: nel 1960 era infatti uscita da Feltrinelli l’antologia I vampiri tra noi, a cura di Valerio Riva e di quell’Ornella Volta che sull’argomento sarebbe tornata nel 1962 con Le vampire, edito in Francia da Pauvert e tradotto due anni dopo in Italia da Sugar.

Non mancò chi all’epoca fece notare, non a torto, la singolare coincidenza che a discettare sul medesimo scabroso argomento fossero due conterranei: dell’estrazione di de Rossignoli si è detto; quanto a Ornella Vasio, giornalista, scrittrice, traduttrice coniugata con il fotografo Pablo Volta, era nata a Trieste il primo giorno del 1927, e a trent’anni si era trasferita e radicata a Parigi. Un po’ com’era già capitato a un’altra artista partita da Trieste, Leonor Fini, a sua volta – come sappiamo – ammaliata dai lati inquieti e inquietanti della realtà (e della surrealtà).

Sennonché quello della Volta per l’universo vampiresco fu un flirt molto intenso ma altrettanto effimero. Una passione ben più forte e duratura sarebbe subentrata, per un altro argomento comunque eterodosso: la figura e l’opera di quell’eccentrico, bizzarro, stravagante compositore e pianista che fu Erik Satie (1866-1925). Una passione totalizzante che per quarant’anni trasformò la Volta nella curatrice amorevole di molti volumi, di mostre e di altre iniziative dedicate al musicista, nonché nella responsabile della Fondation a lui intitolata, in cui furono accasati gli sterminati Archivi Satie, alla morte di lei (2020) divenuti di pubblica proprietà.

(è a lei, tra l’altro, che la sua città natale deve la nascita e la crescita della manifestazione musical-multimediale intitolata appunto a Satie che annualmente, dal 1992, si tiene per iniziativa e a cura della Cooperativa Bonawentura/Teatro Miela).

E dell’altro “vampirologo”, di quel tale de (o de’) Rossignoli che credeva nei vampiri, che ne fu? Nella sua coazione scrittoria continuò imperterrito a bazzicare i territori del fantastico, orientandosi però su tematiche fantascientifiche e apocalittiche (H come Milano, ad esempio: una Milano post-atomica) e collaborando, come Ornella Volta guarda caso, a una rivista dalla vita breve (1969-1972) significativamente intitolata Horror.

Chiamatelo trash, chiamatelo pulp, comunque sia di scaltra manovalanza paraletteraria si trattava, certo non di pura fuffa. Lo prova il fascino che Io credo nei vampiri continuò a esercitare anche dopo essere scomparso dalle librerie. Tanto che infine, nel 2009, ne uscì una riedizione, a cura della romana Gargoyle Books, con contributi aggiuntivi di due esperti, Danilo Arona e Loredana Lipperini.

Evidentemente non basta un paletto di frassino a esorcizzare per sempre un  mito che affonda nei recessi più irrazionali della mente umana, e che forse sottende un’altra occulta aspirazione: quella di sopravvivere alla propria morte. Magari con trasfusioni di sangue altrui…