L’omaggio di Gianni Maran al poeta di Grado

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Un’antologia di testi di Biagio Marin che accompagna i dipinti della mostra romana

di Edda Serra

 

Risulta costituita di poche poesie l’antologia dei testi poetici scelti dal pittore gradese Gianni Maran per rendere omaggio al poeta di Grado Biagio Marin e ai suoi Canti de l’isola, nella mostra romana delle sue opere pittoriche di immediata apertura nella sede di rappresentanza della Regione, che vedrà accostato a ciascuno dei suoi quadri un testo poetico in gradese corredato di traduzione in inglese e in italiano. Si tratta di testi selezionati nel volume L’isola / The island, l’antologia creata nel 1981 per la candidatura di Marin al Nobel, edita nel 1982 da Del Bianco, interamente bilingue, e riedita, arricchita, nel 2005 anche per onorare il traduttore, Gerald Parks, a sua volta poeta, in inglese, in italiano e nel dialetto triestino.

E anche se leggiamo in apertura della scelta Mio favelâ graisan, poesia collocata da Marin in apertura dei suoi Canti de l’isola a partire dal 1951, con il proposito di motivare la scelta del dialetto, l’amore per quel suo mondo, fatto di gratitudine e fedeltà, non possiamo dire che le scelte delle tematiche rappresentate siano esaustive della poetica mariniana, né dobbiamo pretendere che lo siano, e non solo per ragioni banali di spazio.

Certo la lettura di Marin fatta per la circostanza si apre evidenziando gli aspetti della solarità e dell’impeto vitalistico: Per una volta incora istàe xe blu (1958), e Maistral d’istae (1964) con la sua voglia di lontania pur nell’avvertimento della precarietà di ogni cosa nel veloce scorrere di venti, nuvole e giorni; l’esortazione poi a vivere con pienezza e senza riserve impegnandosi (Làssela duta al vento la to vela, 1974), a ardere e bruciare, a vivere ardendo (La vita xe fiama, 1970).

Compare poi il tema del mistero della donna e dell’amore (T’hè levao ogni fogia, 1957), e più avanti il ritratto potente e sensuale di donna Tu son come un’anfora cota (v. Il non tempo del mare, 1964) di misura classica; ma la dichiarazione di poetica contenuta in una preghiera rivolta da Marin alla vita, (Làsseme el sogno: pan de pura farina, 1976) ha già sapore diverso.

La mostra nasce con questa poesia – mi racconta Gianni Maran – ma nel titolo del quadro cui è accostata fa riferimento ad altra poesia Solo un sogno la vita, che è poesia di riflessione sulla consistenza delle nostre esperienze e delle nostre passioni.

Nella successione delle scelte viene poi la splendida rappresentazione della malinconia di un paesaggio al tramonto, che ha valenza esistenziale e cosmica, proiettata come è a dire la malinconia del finire di ogni cosa: Tristessa de la sera (1957).

Segue la rappresentazione del mistero dell’Altro (L’altro cu xe, di Tra sera e note, 1968) e la ricerca di Dio: T’hè sercào nei silinsi d’ogni zorno, della stessa silloge. Sono tutte poesie belle e note. Ma ci sono interpretazioni inattese e sorprendenti. Così la rappresentazione simbolica della vita di una barca Lisiera la barca su l’ole (El vento de l’ eterno se fa teso, 1973): leggera appena varata, lenta e pesante, tentata dall’abisso nella vecchiaia: Maran la accosta al dipinto L’incontro della vita e vi vede il bisogno della ricerca di esperienze nuove, in profondità, di cose che sono oltre – così mi dice – ignorando la malinconia della perdita nel bilancio esistenziale proposto dal poeta.

Al che mi chiedo: come viene letto il poeta oggi da una generazione nuova? Sappiamo bene che un pittore o un musicista di fronte ad un testo poetico si lasciano catturare anche da una sola immagine o espressione, raramente dal messaggio che un testo trasmette nella sua interezza. Per quale suggestione?

In Xe destin de brusâ (In memoria, 1978, dolorosa silloge dedicata al nipote suicida) Marin riprende l’immagine della vita che arde come fiamma per dirci la vanità dell’avventura del vivere, che si riduce a cenere, nebbia, senza lasciare traccia alcuna di noi. Maran la accosta ad una tavola cupa abitata da pesci spolpati, ridotti a lische naviganti – i suoi pesci non sono mai nature morte – e si riprende alla mitologia paesana dello stuolo di generazioni di morti che ritornano al paese, e ignorando la protesta di Marin per il nostro sparire sensa un sigo che diradi foschia (senza un grido che diradi la foschia).

Aggiungo che il tema della morte, frequente nel poeta, non trova altro spazio nel pittore, che la vede se mai come ritorno all’origine. Non la nomina, anche se la massa dei suoi pesci in moto sembra obbedire ad una legge istintiva che li accomuna verso una direzione certa, anche quando in lotta tra loro.

Preceduta da un richiamo alla tematica amorosa e sensuale Luna (da Fiuri de tapo, 1912), è la quartina Mar queto, mar calmo (da Dopo la longa istae, 1965), splendida lezione essenziale di religiosità immanente. Mar queto è poesia contemplativa di un mondo in perfetta quiete diffusa ed è accostata ad un dipinto intitolato “Me son el specio terso d’un fondao” che a sua volta è incipit di altra poesia.

Come in contrapposizione troviamo la poesia che dà titolo alla mostra: Semo una carne sola (El vento de l’ eterno se fa teso, 1973): il pittore sembra prendere le distanze intitolando il quadro cui la poesia si accompagna “Questa è la vita”: vi campeggiano luminosi pesci dalla bocca tonda spalancata per divorarsi secondo la legge immanente della violenza; il poeta dice della vita redenta dal fuoco che la distrugge, mentre la pena lenta si traduce in luce; e conclude comunque: Xe ben murî a la fin del so dì. Ma resta il messaggio di una vita vissuta con pienezza, nella consapevolezza anche qui dell’unità dell’essere e della necessità del superamento delle barriere, che ci rende umani.

La breve antologia si conclude con la ripresa del tema dell’altro e implicitamente del tema della solitàe: L’oltri, lontani, estranei, scogli e dossi isolati mai raggiunti. La poesia, composta nella vecchiaia (Nel silenzio più teso, 1980) contiene i segni della stanchezza e della protesta: dove la rada? Dove il porto in cui rifugiarsi da tanto mondo sempre morto? Il mondo morto è naturalmente quello degli uomini incapaci di vivere davvero e di spendersi.

E ultima, una poesia della stessa raccolta Rivemo nùi: arriviamo nudi al grande approdo; amori e odi, tutto via con la corrente e noltri restemo svodi (e noi restiamo vuoti). Il senso del vivere e di tante lotte resta vanificato. Il pittore la accosta alla rappresentazione di un luogo: “Dove ha avuto origine”.

Certo Gianni Maran ha letto ben altro dei Canti de l’isola, ma non è un intellettuale, anche se l’impulso profondo che gli detta dentro lo spinge a “dire” nel suo lessico severamente ridotto l’intuizione che ha della vita.

Pochi erano i mezzi comunicativi e le risorse espressive di Marin: il lessico di un dialetto di per sé povero, per rappresentare dagli anni ’50 in poi con le immagini dell’isola la propria avventura personale e la problematica esistenziale del suo tempo: [solitudine, incomunicabilità, la vita, la morte, lo slancio appassionato del vivere, la percezione dell’Altro, degli altri, il mistero di Dio, la donna, l’amore, gli inganni delle passioni, la caduta delle illusioni, la sostanziale impossibilità di conoscere davvero in un mondo in continuo divenire]. Senza la disperazione esistenzialistica dei poeti del Novecento. E con la vocazione del filosofo dice l’unità del mondo esistente e la ripete a Pier Paolo Pasolini per la sua morte, accettandone aporie e contraddizioni: El mar xe un co’ le so tante vogie (Il mare è uno con le sue tante voglie).

Ridottissimo è il lessico visivo di Gianni Maran che si nutre pure lui delle radici ancestrali dell’isola e della laguna, passa per la poesia di Marin, trova però in sé nel profondo dell’io la vocazione al poièin, sia pure lavorando di laser e al computer con gli strumenti tecnologici del tempo, e ci dà una lettura autonoma delle leggi che governano il suo mondo. Lettura non filologica dell’opera di Marin, ma per continuare il suo personale discorso accogliendone la sua suggestione anche contaminando i testi.

Il lettore a sua volta interviene, riconoscendo come propri messaggi e contenuti, interpretando cioè e ricreando a suo modo nell’eco di personali diverse suggestioni. In fondo siamo in tanti a dare realtà ad un’opera d’arte; una realtà non univoca in assoluto anche se ogni testo invoca la giusta lettura dell’intero messaggio, in un continuo rinnovato fare creativo.

Un’ultima riflessione sul carattere dell’antologia, indifferente dell’ordine cronologico e dell’itinerario di maturazione di Marin: a comandare è la logica espositiva, giustamente.