PORDENONELEGGE. UN RESOCONTO CON ALCUNE PREFERENZE

di Gabriella Musetti

 

 

Si è appena concluso Pordenonelegge (14-18 settembre 2016), la festa del libro con gli autori, che quest’anno ha avuto come logo un bel gatto nero sdraiato su fondo giallo. E già le indicazioni del programma segnano alcune differenze: meno formule magiche che pretendono di risolvere i problemi e più narrazioni, che raccontano la realtà di oggi, più ricerca, mantenendo ben saldi alcuni principi di fondo, ad esempio il valore delle relazioni interpersonali, la condivisione, l’attenzione alle motivazioni che muovono le persone.

Un programma assai denso quest’anno: eventi e incontri, suggestioni che catturano l’immaginazione, con la capacità di farti provare dall’interno le emozioni e le idee che circolano nel presente. I protagonisti erano nelle piazze, tendoni, teatri, biblioteche, sale istituzionali, circondati da un pubblico attento, desideroso di rapporti in prossimità. Anche passeggiare per le strade, tra la folla circolante nella città, (giovani, coppie, anziani, ragazzi, bambini, tutti alla ricerca di una proprio personale incontro), voleva dire cercare di vivere al massimo le opportunità del Festival, per trarne qualche beneficio. Motivazione che trova una sua comprensibilità nel desiderio di allontanare per qualche tempo le ansie e gli scoraggiamenti dovuti alla crisi economica, sociale, di trasformazione, in cui siamo ancora calati, e non se ne vede una chiara e definitiva fine. Non che Pordenonelegge sia un viatico contro la crisi, anzi, la contemporaneità nei suoi aspetti drammatici ha trovato spazio tra le parole e i concetti diffusi, ma l’opportunità di incontrare una tale concentrazione di pensiero e creazione artistica getta pur sempre una luce di imprevedibilità che stimola l’attesa di qualcosa di impensato. Gente contenta per le strade della città, in attesa di qualche parola da catturare, su cui riflettere dopo o semplicemente per divertirsi, anche sostando nelle lunghe file disciplinate dagli angeli guardiani con la maglietta gialla prima degli eventi di rilievo, come si usa nelle grandi occasioni. Cinque giorni pieni di proposte diverse, dalla filosofia alla letteratura, e poi poesia, moltissima, teatro, economia, politica, sociologia e quant’altro. Occasioni da scegliere selezionandole a seconda degli interessi di ognuno, visto che è impossibile seguire tutto. E questa scelta si riflette nelle pagine che seguono.

Impossibile perdere Simona Vinci, recente vincitrice del Premio Campiello con La prima verità, (Einaudi). Ha aperto Pordenonelegge con una conferenza stampa molto attesa, in un botta e risposta su questioni di letteratura e vita che incrociano tante domande del presente. Mettere insieme le diverse anime del libro, che sono tante, dal noir, al reportage, alla narrazione vera e propria, alla poesia fa di questo un lavoro complesso per genesi e lavorazione: otto anni, un sopraluogo sul posto, difficoltà varie attinenti alla vita personale dell’autrice. Con le tante interviste fatte negli ultimi giorni si è parlato moltissimo del libro e della sua genesi. Ma è un dato ineludibile trattare ancora il tema, visto che intreccia questioni di fondo della scrittura. Come è nato e ha preso forma nelle idee prima che nella stesura. Come la vita si riverbera tra le parole, nei motivi di fondo, quel «grumo scuro che ti porti dentro e deve trovare spazio fuori». É arrivata quasi di corsa, sorridente, con la consueta timidezza nel proporsi agli altri. Ma quando attacca non lascia spazio a tentennamenti.

Rivela che c’è stato un io narrante che ha molto combattuto, a un certo punto della stesura, perché aveva già scritto tutta la parte ambientata sull’isola di Leros (nel Dodecaneso), che è una parte di romanzo storico, una parte romanzata ma fondata su vicende reali. Fu uno scandalo internazionale quando la stampa britannica rivelò che nell’isola di Leros, al tempo del regime dittatoriale dei Colonnelli avevano convissuto forzatamente oppositori politici e malati di mente in un manicomio aberrante, e i pochi superstiti erano ormai relitti umani. «Immagino una giovane ricercatrice italiana volontaria che nel 1992 si reca sull’isola, entra nell’archivio dove sono gettate alla rinfusa le cartelle cliniche dei pazienti e da questo parte una sorta di detection per decifrare i segni inquietanti di cui è pervaso il luogo. E la detection è raccontata da un punto di vista romanzesco, senza che Angela si faccia vera voce narrante». L’autrice dichiara di essere partita da diverse immagini, prima quelle di Alex Majolo, (che era stato sull’isola quando ormai il manicomio era ormai in dismissione). Poi scoprì le immagini precedenti di Antonella Pizzamiglio, giovane fotografa che si era finta amica di uno psichiatra per fotografare i luoghi e le persone infiltrandosi in quel lager, e dovette scappare quando la scoprirono. Era stata mandata sull’isola alla fine degli anni Ottanta da Franco Rotelli, psichiatra basagliano di Trieste, perché voleva aprire una sorta di indagine su quanto stava accadendo sull’isola, e proprio da quelle fotografie partì una inchiesta internazionale. Frutto di questo lavoro è stata la mostra fotografica all’ex OPP di San Giovanni del 2010 (www.artestudiofoto.com/mypage.php?id=500).

Altro incontro importante con Mariangela Gualtieri, in Rito sonoro, al ridotto del Teatro Verdi, una vera e propria lettura recitata sulle forme della gioia e del sentire umano e animale, che ha tenuto ferma e attenta una platea numerosissima per oltre un’ora, con una richiesta di bis, tanta è stata la forza incantatrice delle parole e della voce della poeta. Rito sonoro si presenta come una serie di esortazioni, dal tono accorato e riflessivo, oppure con la leggerezza dello stupore, che invitano a nuove considerazioni sul vivere quotidiano, sulla attenzione da dedicare alle cose minute, ai gesti e alle relazioni concrete. Senza traccia di saccenteria o presunzione accompagnano a una scoperta rinnovata della nostra quotidianità capace di illuminare tante zone oscure o non visibili, attraverso la forza evocativa della poesia.

Di grande impatto per la verve dell’autrice e per le osservazioni che ha portato all’attenzione del pubblico è stata una lezione-esercizio di traduzione, messa in scena da Patrizia Cavalli nel Convento di San Francesco, affollato all’inverosimile, a partire dal libro Shakespeare in scena. Quattro traduzioni, (Nottetempo), recentemente uscito. Cavalli, tra le voci più significative della poesia italiana contemporanea, ha affrontato Shakespeare con un taglio innovativo, contemporaneo, restituendo al drammaturgo inglese (che scrive in versi) la duttilità di una lingua viva, capace di attrarre e commuovere, far ridere ed esprimere tenerezza. La lingua ricreata da Cavalli ha restituito un autore contemporaneo, di una forza espressiva convincente e attuale, suscitando consensi tra gli spettatori che l’hanno seguita con grande calore nella spiegazione e poi nella parte performativa di lettura. Cavalli chiarisce che le traduzioni sono state fatte «non con intento filologico, ma per un pubblico di attori e il regista che aspettavano i testi per metterli in scena». Questa modalità ha chiari effetti sulla traduzione, la modifica, la inserisce in un tessuto vivo di relazioni. «Il modo di tradurre e il risultato sono diversi a seconda della destinazione del testo (filologica, integrità del testo) rispetto a un’attesa viva, come ai tempi in cui un testo veniva scritto e subito dato agli attori. Questo rende il modo del tradurre più vivo e pieno di nervosismi, fatiche, disperazioni, immaginazioni che non lo stare lì nella dimensione semplicemente editoriale». Curiosa e affascinante la scelta di seguire i movimenti dei personaggi sulla carta muovendosi ella stessa tra le varie stanze della casa, per ricreare quelle posizioni che rendano dicibile il testo. L’attenzione alla lingua è precisa, da poeta ripercorre i sottotesti che moltiplicano i significati e costruiscono un tessuto di relazioni da rendere attivo nella traduzione, ma anche le ‘forme’ in cui si presenta, a seconda dell’opera da trattare: la rima e la forma chiusa per Sogno di una notte d’estate, i toni di voce per Otello, l’astrazione per La dodicesima notte, cercando di cogliere la lingua di Shakespeare nelle sonorità e sfumature, il ritmo nell’andamento della voce, gli accenti che rendano il verso necessario. Una grande lezione di poesia (e non solo di traduzione) svolta con la naturalezza che le è propria.

Tra i molti incontri destinati al mondo scolastico l’apertura di una speciale Scuola di scrittura per insegnare e imparare a scrivere, con Giulio Mozzi, Isabella Leardini e Flavio Santi. Una maratona di lettura alla presenza di numerose classi e insegnanti, con una attenzione particolare agli incipit e ai passaggi di alcuni testi di narrativa (Buzzati, Pennac, Scarpa, Baricco, Montalban, Marquez e altri). Un gioco nel gioco, ma con la serietà degli interventi dei curatori a tenere il filo delle narrazioni, suggerire prospettive di lettura insolite, porre attenzione all’uso preciso del linguaggio nei diversi contesti narrativi; insomma come si dovrebbe parlare di scrittura a scuola catturando l’attenzione degli studenti. E sulla scrittura in Europa si è svolto anche un altro incontro affollato di studenti di molte classi, quello con Martino Gozzi della Scuola Holden di Torino e Javier Sagarna Comerge, della Esquela des escritores di Madrid, intervistati da Alberto Garlini. Due rinomate scuole di scrittura per aspiranti scrittori: un confronto tra i programmi e le finalità, gli obiettivi mirati e le aspirazioni di chi frequenta. Con alcune questioni di interesse generale quali l’esposizione a una sorta di ‘fertilizzazione incrociata’ tra generi diversi, dall’arte alla musica ad altre arti o discipline, l’acquisizione di una ‘manualità di servizio’ acquisita con la dimestichezza con forme differenti di scrittura, dal bugiardino all’articolo di giornale, dalla quarta di copertina alla pagina di diario, e poi la lettura a voce alta, vera cartina di tornasole da tenere sempre presente, perché è la lettura che mette a fuoco il proprio stare nella letteratura. Discorso interessante che fa uscire da quella interpretazione ancora romantica dello scrittore illuminato dalla propria luce: il talento non è sufficiente da solo, non lo si crea neppure, ma lo si può potenziare, e soprattutto occorre scambiare le proprie esperienze con altri in una continua esposizione, anche se il lato solitario della scrittura è poi un dato ineludibile nell’esperienza di ogni scrittore.

L’incontro con Cathleen Schine intervistata da Gloria De Antoni, in una sala affollatissima, ha avuto come tema la famiglia, anzi le famiglie che invecchiano, crescono allargandosi, poi si disgregano lasciando nella solitudine quelli che restano. Non è in gioco l’amore, tutti si vogliono bene, sono i tempi che cambiano e portano nuovi assetti alle relazioni con cui occorre fare i conti. Così quando muore il compagno di una vita, la donna già avanti con gli anni si trova lontana dai figli che hanno ormai una vita propria e deve fare scelte per niente semplici, riscoprendo anche in modo bizzarro energie proprie. Sono i rapporti tra madre e figli e tra questi e la madre a essere messi sotto esame, e in una società dove i vecchi vivono sempre più a lungo e costituiscono dei problemi sociali è un tema da considerare. La scrittrice più volte è stata paragonata dalla critica a Jane Austen per la sua bravura nello scrivere ‘dei sentimenti’, e lei ironicamente sottolinea: «perché non a Dickens?», che pure lui, di sentimenti se ne intendeva.

Una edizione di Pordenonelegge, quest’anno, ricca e varia, come sempre d’altra parte. Ma forse con quella scelta di sottofondo volta a cogliere più da vicino tanti temi legati alla vita di ogni giorno, alla continuità di tragitto tra esposizione pubblica e minuta esperienza, e con la costante e utile attenzione ai giovani, alla scuola, al piacere della condivisione e a quanto la letteratura possa essere formativa nei percorsi di crescita.