La guerra di Vittorini

| | |

Un racconto dell’autore siciliano ambientato nella Gorizia del 1915-16

di Fulvio Senardi

 

 

Ci porta verso luoghi ben noti La mia guerra, il racconto che apre Piccola borghesia (1931), il libro con il quale, giusto novant’anni fa,  Elio Vittorini si presentò, per la prima volta, al pubblico dei lettori; peraltro è l’Io narrante, bambino di sette anni, non troppo distante dal concreto biografico dell’autore (il padre ferroviere, il soggiorno a Gorizia, che ebbe luogo però solo molto tardi, ben dopo la conclusione della Grande Guerra, nella seconda metà degli anni Venti).

Il piccolo Elio soggiorna nel capoluogo isontino, ospitato in una famiglia di parenti quando nel maggio 1915 i cannoni iniziano a tuonare. E vi rimane fino alla presa della città da parte degli italiani, nell’agosto del ’16, quando viene riconsegnato al padre e finisce la breve stagione di avventura e inconsapevolezza, la mia guerra appunto, che lo ha visto scorrazzare con Boris ed Emilietta per i vicoli di una città trasformata e frastornata, eppure magico luogo per i guizzi della fantasia, un duttile (e mai angosciante) scenario di gioco di cui, al bambino, sfugge tutta la luttuosa drammaticità, che pure registra  ma senza avvertire la dura tragicità che governa la vita degli adulti. Tutt’altro sentire in effetti, al di qua del prosaico senso di realtà che uccide la spensieratezza dell’infanzia; è all’opera il “fanciullino” affabulatore, che «popola l’ombra di fantasmi», come scriveva Pascoli: «è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose».

Ma leggiamo ora Vittorini: «Nella cucina, la notte, ascoltavo i calci del bombardamento. Grosse palle di legno, grossi tuoni percuotevano le lamiere dei tetti e i tamburi delle case, le gradinate metalliche delle saracinesche. “Che cos’è una cannonata? ” mi chiedevo. E mi pareva dovesse balzarne fuori un cavallo dopo lo scoppio, un cavallo nero e senza testa come quello dell’altra mia infanzia di Siracusa, che sortiva dai rintocchi di mezzanotte e galoppava, galoppava, sul selciato della città con uno spettro altissimo in groppa».

E l’ingresso dei soldati italiani nella città conquistata? Il “fanciullino” vittoriniano non crede nell’eroico, non nel senso degli adulti almeno (e del fascismo, cui pure l’autore è vicino, fino alla guerra di Spagna, l’evento che gli spalanca gli occhi); un modo di essere che per lui non può che svolgersi nel Far West o al Matto Grosso (sic), dove è ancora possibile «prendere al varco con un colpo di Winchester la tigre dal becco d’aquila e dalla coda a sonagli»; se così non fosse, con poco dispendio di fantasia, avrebbe dato magari fiato alle trombe della retorica – il regime avrebbe gradito – con qualche squillo in onore, mettiamo, di Aurelio Baruzzi. No, il fanciullino, siamo di nuovo a Pascoli, «impicciolisce per poter vedere»: «gli italiani», scrive Vittorini, «erano soldati molto buffi, vestiti di verde, questo pensavo, e scrivevano sui muri come noi bimbi. Ero felice che fossero venuti perché nelle strade facevano sempre chiasso e  cantavano. E poi mi pareva che fossero tutti generali. Tutti avevano galloni e medaglie e con voce stentorea comandavano, o fingevano per qualche loro gioco».

Non c’è però, in questo “fanciullino” vittoriniano, solo il versante estetico-gnoseologico, ma pure un senso di ribellione e il gusto della scorribanda trasgressiva ed avventurosa che, di nuovo, rimandano alla paternità letteraria; a Vittorini ragazzo, come ben sappiamo, stavano stretti gli esigui confini della casa siciliana se già a tredici anni se ne scappa via per scoprire la vastità del mondo, avvalendosi dei biglietti gratuiti a disposizione del padre ferroviere. Di quel padre che, nell’invenzione narrativa, non troppo acerba però (c’è una lunga e trascurata preistoria delle opere più conosciute), lo scrittore fa apparire la figura risolutiva solo in conclusione (risolutiva e castrante quanto alle scorribande di libertà), un padre giunto a Gorizia per riportare all’ordine il monellaccio, fuori dalla “guerra” e dentro la vita normale: «D’improvviso arrivò mia padre un pomeriggio. Lo odiai appena lo vidi, dinanzi a caffè Teatro, come per caso. Mi prese in braccio quell’uomo ispido e dagli occhi quasi bianchi, mi prese in braccio e mi baciò, ma mi pareva che volesse battermi e mettermi in castigo per la mia grande discoleria d’un anno. “Vedi che ti ho acciuffato?” mi disse».

Eviteremo fin troppo facili digressioni freudiane (ma come non notare il particolare perturbante degli «occhi quasi bianchi»?), sottolineando invece il sapore di verità che conferisce al mesto ritorno a un quotidiano più adatto all’età infantile l’osservazione linguistica in sapore, veramente, di vita vissuta: «Tutta la gente che passava sotto al finestrino parlava un’altra lingua. “Quel bimbo” dicevano di me e non “putel”. Ciò era orribile». Resta da dire che, nell’affabulazione almeno, il “fanciullino” si è liberato per un anno intero degli adulti che spariscono dalla sua vita nella Gorizia così gravida di affanni militari, se si fa eccezione per un tenero e svampito nonnino, che rimane a fianco dei bimbi inselvatichiti, reso quasi, per le nebbie dell’età, uno di loro. O meglio, trasformato in una figura di fiaba, perfettamente coerente con la grande avventura della guerra: «Era stato lui, durante l’inverno, a fare nel camino un po’ di fuoco, con il crine dei materassi, con gli arbusti abbattuti nel cortiletto […]. La barba gli era tanto cresciuta che noi avevamo paura a stargli troppo vicini. Era l’orco, era Robinson Crusoe. Emilietta per non restar sola con lui voleva adesso seguirci nelle nostre scorribande».

Vittorini gioca bene le sue carte sul tavolo dell’affabulazione, e se la realtà sfugge alla presa, tanto peggio per essa. Quel “Marco” nei confronti del quale Boris mette in guardia l’amichetta («Marco era il cannone d’Italia che dalla collina di San Marco circuiva di lenti tuoni la città, lenti treni che andavano a scoppiare più lungi come se entrassero a un tratto in qualche ponte di ferro. E non si rideva. “Che idiota!”») è solo un frutto della fantasia, perché spara da un monte (monte per così dire, poco più di 200 metri di altezza) che gli italiani non riuscirono mai a conquistare, pur andandovi vicini nella nona battaglia dell’Isonzo. Ma che importa? In fondo lo scrittore, che cuce con mano spigliata i suoi ricami letterari, assomiglia al protagonista, quanto ai diritti della fantasia. Occhi aperti, e soprattutto orecchie tese; chi legga il racconto con attenzione, si renderà conto infatti di come tutto un universo di suoni conflagri intorno a Gorizia, quasi a passare in rassegna alle cose del mondo: e ci sono «campane che crollavano nell’aria squillando, treni che precipitavano di ponte in ponte», ecc. ecc., e perfino, a buona distanza dall’Adriatico, «il rombo di mare [che] montava più alto e più prossimo, in una aerea risacca».

Miracoli della fantasia e della metafora. E non è un dannunziano assaporamento, quanto piuttosto, alla Rimbaud, una curiosa scoperta del mondo inventariato sensorialmente (qui fruttifica, se i conti tornano, quella «“amorosa intelligenza” della letteratura europea», di cui, pur ammettendo la «lezione rondesca», Maria Corti ha accreditato il giovane Vittorini).

Lo scrittore ritornerà, con spirito esegetico, su questo racconto in una lettera a Falqui del 1941, per contestare al critico napoletano l’idea che l’influsso dei narratori americani sia, nell’ultima produzione (Nome e lagrime, che comprende anche Conversazione in Sicilia) evidente e prevalente: «ti richiamo a certe mie cose di prima che sapessi leggere l’inglese, La mia guerra […] e Nei Morlacchi […] ed entrambe, non ti sfuggirà, sono sulla strada di quello che faccio oggi». La matrice strapaesana, spontaneità, mascolinità, rudezza, come preludio alla fascinazione americana.

In conclusione, poche pagine La mia guerra, ma non cosa da poco.