La guida sentimentale di Claudio Grisancich

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di Walter Chiereghin

 

Come può essere organizzata una guida sentimentale di Trieste scritta da un poeta? Ora possono dire di saperlo tutti i partecipanti a una lettura pubblica tenuta da Claudio Grisancich il 4 luglio, in una serata baciata da una bora fin troppo esuberante, nell’ambito delle manifestazioni del Lunatico Festival 2019. E gli spettatori, interpellateli pure uno ad uno, vi diranno tutti che si è trattato di una serata di non comune intensità emotiva, come collettivamente avevano avuto modo di manifestare quella sera, con un applauso scrosciante e convinto, a premiare la grata fatica del poeta che, anche in quell’occasione, ha dato prova delle sue qualità di attore, riuscendo ad avvincere un pubblico eterogeneo per età in tre quarti d’ora di una recitazione che ha saputo restituire agli spettatori un’immagine della città poliedrica e ammaliante al limite del seduttivo.

Trieste. L’aria natia è il titolo di questo testo inedito, che Grisancich aveva proposto tempo addietro in una versione embrionale nell’ambito della rassegna di teatro a leggio della Contrada, testo ora rivisitato e completato secondo un progetto poetico e narrativo che si è venuto precisando e allargando nel tempo, partendo da quel titolo così esplicitamente sabiano, per zigzagare poi tra dialetto e lingua nazionale, tra citazioni colte e musichette da trivio (altra citazione da Saba, ma questa volta è mia), componendo alla fine una sorta di patchwork che concede la parola a una quantità di scrittori e poeti – tra i quali, a più riprese, lo stesso Grisancich – cui è delegato il compito di fornire un’immagine articolata e palpitante della città. Ma non si tratta solo di citazioni dotte: il testo è un florilegio di molte differenti cose, quali canzonette (l’incipit è affidato a Vola colomba, la canzone vincitrice a man bassa a Sanremo nel 1952, il destino di Trieste ancora in bilico, sotto l’Amministrazione Militare Alleata), ma anche proverbi recuperati alla maniera di Verga da una saggezza popolare spicciola e diffusa, modi di dire, che non arretrano nemmeno davanti a una sguaiata irriferibile volgarità pur di conformarsi all’esigenza di rappresentare sinteticamente e appieno quanto s’intende comunicare.

Per dare ragione di una realtà particolarmente complessa qual è questa problematica città, sembra quasi che all’alta fantasia qui mancò possa, e l’autore si risolve a chiedere soccorso a quanti altri, nella sua esperienza personale e di lettore, sa essere stati interpreti vigili e acuti quanto lui stesso di una realtà attraente ed elusiva. Affiorano così alle sue labbra reminiscenze di Saba, di Giotti, di Cergoly, di Sambo, di Spaini, di Pahor, di Balzen, di Miniussi, di Košuta. di Joyce, di Anita Pittoni, naturalmente, e di numerosi altri, alcuni stelle di prima grandezza del cospicuo patrimonio letterario triestino, altri periferici e dimenticati cantori, ma, come dice Grisancich in una sua celebre poesia, Inventario (cooptata nel testo), si tratta di voci «che se nissun ricorda / ricordo mi».

Un’invenzione letteraria di straordinario effetto, cui contribuisce anche l’alternanza del registro linguistico utilizzato, e l’andamento sinusoidale del tono, che tocca apici di intenso sapiente lirismo alternati a una colloquialità piana, quando non sguaiata e irridente, caratteristiche che rendono Grisancich, soprattutto nei più recenti esiti della sua poetica, l’interprete più acuto e assieme popolare dell’anima complicata della «più strana città».