La missione di Borgese in Albania

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di Fulvio Senardi

 

Incontro felice di due ritrovamenti (la Relazione di un viaggio in Albania e Macedonia nel giugno 1917, di Giuseppe Antonio Borgese, recuperato presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma, e una raccolta di fotografie del padre donata alla Biblioteca Hortis di Trieste da Leonardo Borgese) e di due competenze (quella letteraria di Riccardo Cepach e storica di Ilaria de Seta, cui si aggiungono Gabriella Norio per l’aspetto archivistico e Paolo Muner per la questione macedone) esce, per Luglio Editore/Comune di Trieste, il volume Giuseppe Antonio BorgeseI Balcani 1917-1919, La missione in Albania e la questione jugoslava con scritti e fotografie inedite – 2019, pp. 132, Є 14).

Nell’introduzione a due mani Cepach e de Seta chiariscono sia il senso dell’accostamento (“la relazione tra i due documenti inediti è esplicita ed evidente […] le parole della relazione illuminano gli scatti fotografici mentre questi ultimi illustrano i passaggi della prima”) che il valore della relazione “albanese” nel quadro dell’impegno complessivo di Borgese durante la Grande Guerra, quando il giovane ma già noto intellettuale (saggista e giornalista, per La Stampa e Il Corriere della Sera innanzitutto) mise a disposizione del Governo la sua competenza di analista per chiarire alcuni garbugli geo-politici tanto in una prospettiva attuale di carattere strategico-politico quanto in vista di un Dopoguerra che si annunciava oscuro e gravido di difficoltà per gli interessi italiani. Inutile aggiungere che al centro della riflessione si trova la questione dei Balcani, vera “polveriera d’Europa” dal Congresso di Berlino in poi, e rispetto alla quale Borgese si dichiara inizialmente contrario, spiegano i curatori del volume, “alla politica delle nazionalità e all’autodeterminazione dei popoli, che giudica inapplicabile nel caos delle nazionalità e delle rivendicazioni balcaniche”, pur restando negativo sul Patto di Londra (che assegnava all’Italia la Dalmazia) “a favore invece di una federazione ‘orizzontale’ di Stati balcanici” con fulcro e guida italiana.

Quando, dopo il patto di Corfù (l’accordo del luglio 1917 tra Governo serbo e rappresentanti della diaspora slovena e croata nella prospettiva di una futura Jugoslavia), apparve ineluttabile la formazione, sulle ceneri dell’Impero asburgico, di uno Stato degli Slavi del Sud, Borgese elabora quella posizione più possibilistica nei confronti di uno stato balcanico jugoslavo a trazione serba che sfocerà nel Patto di Roma (aprile 1918), da lui fortemente voluto. Patto (visto con simpatia da Orlando e con palese diffidenza da Sonnino) che rappresentò un importante momento di intesa tra le “nazioni oppresse” dell’Impero asburgico, cechi e slavi del sud fra di esse, nell’ipotesi di una futura Europa sud-orientale, rispettosa delle aspirazioni all’indipendenza dei vari popoli nello spirito di Mazzini e di Tommaseo e dei cui equilibri l’Italia ambiva farsi garante.

Quanto poi prevalsero ambiguità, gelosie e antagonismi è chiaro a tutti coloro che conoscono la storia dell’ultimo anno di guerra e della pace difficile che ne seguì. Borgese, a conclusione della relazione “albanese” (che si può leggere, anche a prescindere dalle implicazioni più ampie, come una semplice e gradevole cronaca di viaggio) intuisce perfettamente i problemi in agguato sul cammino di un’Italia ambiziosa quanto velleitaria: una capacità militare (e, aggiungiamo, economica, organizzativa, diplomatica ecc.) “troppo inferiore alla nostra volontà politica nei Balcani” e la difficoltà italiana a contrastare la più decisa e meglio concertata capacità di penetrazione francese (l’eterno tormentone della “cuginanza” antagonistica), che poteva facilmente sostituirsi all’egemonia austro-germanico sui Balcani, a spese delle aspirazioni nazionali sull’Adriatico e del “concetto italiano dell’Albania” (cui sarà Giolitti, nel 1920, a mettere, assai ragionevolmente, la parola fine).