LA MUSICA DA CAMERA DI JAMES JOYCE

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di Graziella Atzori

 

Chamber Music, le poesie d’amore giovanili di James Joyce, vengono pubblicate per la prima volta nel 1907. In seguito Joyce dedicherà il volume alla moglie Nora. In una lettera del 1909 le confida: ‘Quando ho scritto [ Chamber Music ], ero un ragazzo solo, a piedi di notte e pensavo che un giorno una ragazza mi avrebbe amato’. Siamo quindi di fronte a un sogno adolescenziale risplendente che anticipa la realtà, con una preveggenza resa perfetta dalla rima e dalla musica, complici la notte, la solitudine e la speranza. Preludio di ogni innamoramento, il sogno ingigantisce il desiderio, liberato da censure, impedimenti o moralismi.

Insieme alla traduttrice Irene Cimmino, abbiamo voluto riproporre questo piccolo gioiello romantico in un momento storico, il nostro, così povero di voli ingenui e speranzosi, incupito da una quotidianità tragica che lascia davvero poco spazio all’utopia. L’editrice ibiskos ne ha realizzato la pubblicazione. Il maestro Carlo Grandi, direttore d’orchestra e già fondatore e direttore del ‘Quartetto Joyce’ ha curato la prefazione, nella quale sottolinea che ‘nella contrapposizione tra etereo e materiale… possiamo individuare il perno di questa raccolta’.

In effetti gli elementi figurativi e descrittivi – della natura  primaverile con i suoi fiori, con il ‘vento speziato’, l’audacia colorata del bosco, il suono delle acque e il trascorrere lieto del giorno – fanno da contrappunto alle emozioni, ad altre immagini fantastiche, eteree, emergenti dall’universo interiore: ‘Mentre in segreto, delicate e soavi, / vibrano le campane fiorite del mattino / e i saggi cori delle fate / (innumeri) s’odono infine.’

Soltanto a Eros è dato ricomporre e ricreare il mondo in una suprema armonia, tipica dell’Eden. Joyce compie l’operazione del grande ritorno alla felicità primordiale: ‘In quel dolce seno vorrei ristare’ ‘(piano busserei e piano la supplicherei)’, felicità individuata nella bellezza femminile, racchiusa e custodita nel corpo della donna. ‘Sporgiti dalla finestra, / tu, dalla bionda chioma,’ ‘Ho lasciato il mio libro, / ho lasciato la mia stanza, / poiché ti ho sentito cantare / attraverso le tenebre.’ L’apparizione dell’amata racchiude ogni dolcezza, sintetizza il bene totale, superiore ai tesori della cultura. Il libro non parla più, il richiamo amoroso è canto più seducente. Per inciso è stata questa lirica, la numero V della raccolta,  ad ispirare una canzone di Syd Barret (Pink Floyd).  La donna, dunque, è immagine centrale, cantata dai poeti di ogni tempo. Qui è ninfa e anima, ma anche presenza reale e sensuale, non angelicata, oggetto di un corteggiamento intenso e appassionato, condotto con un linguaggio molto libero per quei tempi e per di più nella cattolicissima Irlanda dai costumi molto castigati. Nessun giovane avrebbe potuto avvicinare una ragazza e strapparle un appuntamento nei termini arditi ipotizzati da Joyce: ‘Nel folto del bosco dei pini / vorrei giacessimo,’. E scrive più oltre: ‘Il tuo bacio scendendo / più dolce sarebbe / con il morbido tumulto / dei tuoi capelli.’ Situazione Irreale, ma è un sogno che non mente.

La letteratura anticipa la vita. Così, sessant’anni dopo, mutato il contesto culturale, il linguaggio amoroso di Joyce diventa possibile, usuale: i Beatles cantano ‘All you need is love’ facendo impazzire le ragazzine; i Rollings Stones ancora più esplicitamente dichiarano: ‘Let’s spend the night togheter’ senza remora alcuna.

Facile legare questa dolcissima e suadente musica da camera al suono irruento e sincopato del rock, non nell’aspetto formale, bensì nello spirito libero e trasgressivo.

Diverse liriche rivendicano la libertà di amare, di restare uniti ‘come in un nido muschioso /di scriccioli’.

Eros puro, nel senso che è privo di finalità, se non quella del suo appagamento, assurge a valore universale. È il primo dio, su cui, con le sublimazioni necessarie, è costruita la civiltà, da preservare.

Sembra essere questo il messaggio depositato nei versi. È quanto ho voluto mettere in luce nelle meditazioni brevi, da me aggiunte sotto ogni lirica. ‘Quasi una chiosa al testo’ ha sottolineato Renzo Crivelli, durante la presentazione del volume, avvenuta a Trieste nell’ambito del “Bloomsday 2015”, presso la Biblioteca del Museo Svevo-Joyce.

Un amore vale, indipendentemente dalla sua durata, ‘anche se dura un giorno solo?’ Il punto di domanda, voluto da Joyce, turba e interroga, destabilizza le nostre sicurezze.

I giovani innamorati protagonisti di Chamber Music conosceranno il dolore dell’abbandono. Nelle liriche finali verranno pronunciate, anzi gridate le parole strazianti e inconsolabili della perdita: ‘Amore, amore, amore mio, perché mi hai abbandonato?’ Parole a cui segue il vuoto, a cui non esiste risposta, come resta senza risposta il grido di Cristo in croce. Ed è anche questa la musica della vita, solitudine e spoliazione. Da meditare, comprendere, oltre le parole.

Seguirà un nuovo inizio, ma sarà un’altra storia, anche se appare impossibile dopo un crollo emotivo. Non ha fine il ciclo incessante del nascere, morire, rinascere. Lo sappiamo.

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