Salisburgo a Pordenone

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La bella vita del critico d’arte / 21

di Giancarlo Pauletto

 

Si era – alcuni amici del Centro Iniziative Culturali Pordenone – a Salisburgo, per qualche giorno di vacanza. La città di Mozart ci aveva accolto col bel tempo, sicché era un gusto passeggiare per il centro storico con la svagata andatura di chi è lì per respirare l’aria, e cogliere ogni occasione di interesse e divertimento. Vedemmo tutti i luoghi da vedere, compresi i caffè e le trattorie, e naturalmente anche la galleria d’arte contemporanea della città, il “Rupertinum”.

Le collezioni, tra cui spiccava un’ampia serie di opere grafiche di Paul Klee, ci interessarono molto: sorse la apparentemente balzana idea di chiedere udienza alla direzione, per presentarci come operatori culturali e dire anche dell’attività della “Sagittaria”, che toccava allora – primavera 1991 – giusto venticinque anni di attività.

A volte i miracoli. Non ci fu neppure bisogno di chissà quali discorsi: alle normali condizioni di qualunque mostra venga richiesta e accordata, cioè le spese e l’assicurazione delle opere, inaugurammo, nell’ottobre del 1991, la prima di quattro bellissime esposizioni che potemmo realizzare in collaborazione con la Galleria della città di Salisburgo. Si intitolava La figura interiore, ed era una rassegna che presentava a Pordenone le più forti personalità della scultura austriaca dopo il 1945.

La copertina del catalogo, che riproduciamo, dà un’idea abbastanza veritiera della sequenza di opere che furono ordinate alla “Sagittaria”, dominata all’origine – come affermava Otto Breicha, direttore del Rupertinum, nel suo testo introduttivo – dalla figura di Friz Wotruba.

Del grande scultore viennese – tornato in patria solo nel ’45 dalla Svizzera, dove si era esiliato a causa del nazismo – veniva presentato il formidabile Grande viandante del 1952, un bronzo eretto in blocchi squadrati e potenti, una sorta di inno alla resistenza della persona contro il premere degli eventi, spesso catastrofici, della storia.

Questo insistere di Wotruba sulla figura, anche astrattizzata in moduli geometrici, fu per almeno vent’anni un impulso che si trasmise a sodali ed allievi, e che informò quindi gran parte della plastica austriaca: del resto molto comprensibilmente, se si pensa alle elaborazioni, antropologiche ed estetiche, che quella cultura aveva edificato nei primi decenni del Novecento, attraverso personalità come quelle di Freud, Kraus, Musil, Canetti e, per restare sul piano delle arti figurative, Kokoschka e Schiele.

Elaborazioni, tutte, volte a indagare le ragioni profonde dell’agire umano nella società e nella storia, e quanto ce ne fosse bisogno lo andava dimostrando la prima guerra mondiale, e ancor più lo dimostrò, dopo, l’insorgenza dei fascismi europei.

Dunque, e solo per fare qualche esempio, ecco le sculture di Johannis Avramidis, di Bottoli, di Eder, di Hrdlicka, dello stesso Hoflehner insistere sull’idea della figura umana, sia pure in maniere diversissime; ed invece altri scultori, più o meno giovani, avanzare in territori che ormai si allontanavano dell’esempio Wotruba, pur rimanendo comunque – spesso se non sempre – legati ad un’idea di “corpo strutturato”: come si poteva vedere, sempre come esempio, nella Figura con l’elmo di Moswitzer, nell’Anfora di Ölzant, nel Visitatore di Reiter, nel Busto di Goeschl.

Si trattava, insomma, di una esposizione chiaramente centrata sui “problemi dell’umano”, in un momento in cui la caduta dei regimi dell’est europeo apriva «potenzialità e pericoli nuovissimi»: quelli di cui parlavo nel mio intervento in catalogo, e che oggi, fallendo ancora una volta la capacità di comprendere e di mediare, stiamo toccando con mano in Ucraina.

Ma la mostra mi pareva allora, e anche oggi continua a parermi, un nitido esempio di come l’arte riesca sempre ad essere testimone dei tempi: anche se non li può mondare, questi tempi, dalle loro miserie – o dalle loro, spesso disastrose quando non mortali – contraddizioni.

Ma se deve morire, che muoia – anche l’arte, se non soprattutto l’arte – in trincea.

 

La seconda mostra si intitolò, tra il novembre del ’92 e il febbraio del ’93, Visioni dall’Europa.

Nel testo in catalogo giustificavo il titolo con le argomentazioni che cito, a chiarire, spero con sufficiente esattezza, la sostanza di quella affascinante e del tutto inedita – per Pordenone e il Friuli – rassegna d’immagini calcografiche: «Che sia legittimo usare il termine “visioni” per questa mostra, credo risulti chiaro a chi ne consideri sia la collocazione culturale, sia la sostanza visiva. La collocazione culturale sta tutta tra simbolismo ed espressionismo […] Ambedue le aree sono percorse dalla necessità del vero: il simbolismo cercando soprattutto dentro gli strati e i sommovimenti dell’io, l’espressionismo implicando nel discorso anche la questione dei rapporti sociali, senza però ridurre il soggetto a puro epifenomeno della società. Ecco allora che si può parlare, a proposito di queste due correnti culturali, di una specie di continua colluttazione con la realtà: nel senso che la realtà è il loro orizzonte, solo che di essa non si tratta di mettere in evidenza la pura visibilità, come aveva fatto – o come pareva avesse fatto – l’impressionismo, ma piuttosto quel che sta sotto la superficie, come se di un corpo si trattasse di far vedere non la pelle e la figura, ma il sangue, l’intreccio dei nervi e dei muscoli; o come se di una casa si volessero portare alla luce le fondamenta, che non si vedono, ma sulle quali la costruzione si regge.

La novità di tutto questo non potrà essere espressa secondo la consuetudine… parlarne significa invece forzare gli schemi, abolire la “visibilità” per sostituirla con la “visione”: la quale ha a che fare con con una verità che si deve portare alla luce, o anche con una verità che si impone con la violenza della sua luce: in ogni caso con una verità che non si rende evidente attraverso i modi del confronto, dell’esperimento, tipici della scienza, ma piuttosto attraverso quelli del sogno, o dell’incubo, o dell’allucinazione, della deformazione, anche della violenta semplificazione».

Era l’angoscia, un’angoscia profonda, quella che traspariva dalle oltre cento calcografie della mostra, individuata – come si accennava – tanto negli strati psichici che costituiscono la singola personalità, quanto nel suo originarsi dagli scontri che l’ingiustizia dei rapporti umani inevitabilmente genera nel corpo sociale.

Scrivevo, a proposito delle litografie di Kubin sui Sette peccati capitali, che il disegnatore creava un mondo orroroso attraverso un disegno apparentemente trascurato, in realtà sapiente fino all’esasperazione, creatore di mondi che, con la stessa lucidità dell’incubo, chiamano dentro lo spettatore, lo costringono a vivere in un racconto angosciosamente notturno; anche Kokoschka, sia nella famosa serie dei Ragazzi sognanti, di impronta tipicamente secessionista e di tono lirico, sia nella più tarda Cantata di Bach – assai più drammatica e di segno espressionista – tentava decisi affondi nell’interiorità, giungendo, nel racconto del suo rapporto amoroso con Alma Malher, alla cruda immagine della tomba in cui egli è sepolto, e a quella sorta di “sacra deposizione” in cui l’artista tiene il posto del corpo di Cristo.

Nella serie di Fronius, relativa alla Metamorfosi di Kafka, ancora si poteva leggere l’efficace illustrazione di un dramma tanto più aspro, quanto in realtà tipico di uno spazio quotidiano e domestico, così come quotidiana e domestica è la riduzione di ciò che non si capisce a devianza, a monstrum, a errore da nascondere e cancellare; mentre in Beckmann, certamente dentro un clima espressionista, vi è come uno sguardo sospeso e quasi metafisico, la sofferenza apparendo più il portato inevitabile dell’esistere che una situazione storicamente determinata, e quindi in qualche modo controvertibile.

Decisamente più “sociale” era invece lo sguardo di Kathe Kollwitz, di Barlach, di Rössing, di Masereel.

La Kollwitz, nelle incisione e nelle litografie della Rivolta dei tessitori, disegnate ancora negli anni ’90 dell’Ottocento, aveva dimostrato perfettamente come si potesse usare il bianconero – un bianconero di grande sensibilità e intensità – per un racconto intriso di critica sociale e di profonda pietà umana.

Essa indicava la strada all’ala più radicale, anche socialmente, dell’espressionismo.

Strada seguita ad esempio da Barlach nella serie di litografie intitolata Il cugino povero, una storia mista di disperazione soggettiva e di critica sociale, un racconto di denuncia e interrogazione nel quale la forza inventiva riesce a tradurre in puro fatto grafico le tensioni primarie della vicenda.

Decisamente satiriche erano invece le tavole di Rössing, antimilitariste e antiborghesi, con forte impatto plastico e narrativo, coerenti del resto all’intenzione morale che stava alle spalle del suo lavoro. Siamo attorno al 1930, fascismo e nazismo stanno preparando la grande carneficina mondiale.

Infine Masereel raccontava – in limpidi calibratissimi legni, in un bianconero spesso affollato di figure – una storia esemplare, la storia di un uomo che si batte contro lo sfruttamento del lavoro, e che per questo viene condannato e giustiziato.

Raramente, in tanti anni di attività, ho smontato una mostra con più dispiacere di questa.

 

La terza fu un’esposizione di fotografia, un panorama dello stato dell’arte in Austria, a cominciare dal dopoguerra.

Il Rupertinum aveva un preciso programma di documentazione in questo settore, e così Pordenone e i territori contermini, veneti friulani e giuliani, ebbero a disposizione una rassegna di tutto rilievo, che comprendeva nomi già noti a livello internazionale, e nomi di giovani che si andavano distinguendo anche nei premi banditi ogni due anni dal Rupertinum medesimo.

Erano sedici operatori di cui non è possibile, ora, fare la rassegna completa, ma almeno alcune personalità vanno ricordate, per lasciare un’idea più precisa di questo evento: che non cadeva nel vuoto, visto che il Friuli Venezia Giulia non mancava – allora né oggi – di presenze importanti nel settore della fotografia, a cominciare dai Bevilacqua, dai Ciol, dai Borghesan di Spilimbergo.

C’era Franz Hubmann, nato nel 1914, con foto della Saga Hawelka del ’59, uno dei vertici della mostra.

Il Café Hawelka era il locale di Vienna dove spesso si riuniva la redazione della rivista Magnum, di cui Hubmann era stato tra i fondatori: egli riusciva a tradurre perfettamente l’aura di intimità, si può dire di benessere psicologico, che si crea all’interno del familiare mondo del Caffé, cogliendo situazioni e gesti quotidiani in cui ognuno si poteva riconoscere.

C’era Inge Morath, che fece parte dell’Agenzia “Magnum”, collaborando con Life, Paris Match, Saturday Evening Post e altri gornali.

Nelle sue fotografie viveva l’aura del reportage classico, bastava una foto come La bella e la bestia, celebre, a testimoniare l’acutezza narrativa del suo lavoro, e la sua capacità di meraviglia e d’ironia.

C’era Leo Kandl, che nei suoi vetri esaltava una bellezza ibernata, una specie di metafora dell’inaccessibilità, sottolineata anche dai nitidi schemi delle gabbie in cui gli oggetti di cristallo stavano in un definitivo, luminoso silenzio.

Con questi algidi vetri contrastava assai efficacemente la fotografia di Manfred Willmann, uno degli artisti (allora) più giovani, il quale raccontava, col colore, la potenza del rapporto con la terra, in immagini fortemente reali, positive, anche carnali, sudate.

E c’era, infine, Ernst Haas, anch’egli socio dell’Agenzia Magnum. Sua l’immagine più commovente della mostra, quei Reduci del 1948, che era intensamente gioia e pena: la gioia nel sorriso dell’uomo che torna, la pena, la speranza senza speranza della madre che tende la foto del figlio, per averne possibili–impossibili notizie.

Un’immagine che valeva più di mille parole.

 

E venne poi la ciliegina sulla torta, le noventasei acqueforti per Le anime morte di Gogol, realizzate tra il 1923 e il 1927 da Marc Chagall.

Per ricordare questa mostra, a mio giudizio assolutamente straordinaria, non posso far altro che autocitarmi dal testo dell’introduzione che scrissi: «Vi sono molte tavole che, per chi ha letto il libro magari più di una volta, diventano immediatamente l’unica possibile raffigurazione di quelle pagine di Gogol, di quel passaggio, di quel personaggio. Il folle Nozdriov, per esempio, il superficiale, iroso, bugiardissimo, violento, sbalestrato Nozdriov, ci viene incontro nell’immagine di Chagall in tutta la sua pazza irresponsabilità occupando, con le gambe divaricate e le braccia allargate in alto, tutto lo spazio, in modo da rendere impossibile ogni via di scampo; come in effetti capita a Cicikov, maestro dell’imbroglio, artista del raggiro ma anche inopinato zimbello di circostanze che la sua intelligenza limitata non sa controllare: tanto che, nella situazione, egli sarà salvato solo dall’intervento dei poliziotti, mentre sta per essere bastonato di santa ragione.

O, in tutt’altra situazione, l’incredibile Pljuschkin, vecchio proprietario sfigurato dall’avarizia che vorrebbe versare da bere a Cicikov un rivoltante liquore di vecchissima fattura, liberato – dice lui – da ogni sorta di insetti che vi si erano calati dentro: ma è chiaro che lo dice proprio perché Cicikov rifiuti, e così lui possa risparmiare anche quello. […] E quale tenerissimo poema di quieta vitalità mattutina e campagnola Chagall sa ricavare da una breve descrizione di Gogol relativa ad un cortiletto pieno di animali, che il protagonista osserva dalla sua finestra. Ma sappiamo che Chagall, per gli animali, ha una grandissima simpatia, e qui è una festa di galline maiali e capre, mentre sullo sfondo sono puntigliosamente annotati gli orti, le isbe e gli spaventapasseri che sono nel testo.

Chagall, è naturale, insiste su personaggi e passi che lo interessano di più, che meglio si accordano alla sua fantasia e alla sua sensibilità aperta, cordiale, ironica più che satirica, lirica più che realistica: mentre Gogol, attraverso il suo straordinario registro comico, intende anche – come si dice – fustigare i costumi, denunciare la corruzione russa dell’epoca […].

Chagall è, forse, più “leggero” di Gogol, ma non certo per superficialità, sì per una scelta di poetica che riesce a volgere in ironia lirica anche la descrizione dei più incattiviti e miserabili vizi umani».

Poi, dopo questa mostra, chiusa nel febbraio del 1996, il direttore del Rupertinum cambiò.

Il nuovo direttore evidentemente ritenne che una Galleria che dialogava con Parigi e Madrid non dovesse impegnare tempo anche per intrattenere rapporti con Pordenone.

Qualche tentativo di ripresa cadde nel vuoto.

Amen.

 

La figura interiore

copertina del catalogo