La parca ineludibile

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di Anna Calonico

Michela Murgia, sarda nata a Cabras, scrittrice per Einaudi, ha ispirato Paolo Virzì con il suo Il mondo deve sapere, e dopo Viaggio in Sardegna, Ave Mary, Chirù, L’incontro (tutti editi da Einaudi), ha vinto il premio Campiello con Accabadora (Einaudi, Torino, 2009, pp. 163, € 11) nel 2010. Ben otto anni fa. Ma la legge sul testamento biologico è un fatto di questi ultimi mesi, e la lettura di quel breve romanzo risulta quindi più attuale in questo momento, perché “acabar”, in spagnolo, significa “finire, porre termine”.

L’accabadora è quindi colei che pone termine, che recide, come Àtropo, l’ultima delle parche, il filo della vita. Maria Listru, però, la protagonista del libro, per molto tempo ignora questa verità di Tzia Bonaria Urrai, la donna che la accoglie in casa bambina, come fosse una figlia, uno dei tanti “fillus de anima”, i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra (p.3).

Questo inconsueto rapporto madre/figlia si svolge per buona parte del romanzo intorno al segreto di Tzia Bonaria, che viene svelato a Maria, non più bimba, proprio nel modo peggiore, durante il dolore per la perdita di un conoscente. Che sia stata proprio Tzia Bonaria a far finire le sofferenze del giovane amico, la ragazza non può accettarlo, tanto che dimentica di essere stata allevata con amore e lascia il paese.

Saranno i mesi trascorsi a Torino, e poi i mesi al capezzale della madre adottiva, a rasserenare nuovamente la protagonista, anche se la sua opinione in merito all’eutanasia non viene mai espressa chiaramente. Il lettore, però, consapevole del segreto della vecchia sarta fin dalle prime pagine, ne ha circa centosessanta per commuoversi, rabbrividire, sospirare e accettare o disapprovare il “lavoro” della donna. O almeno, la storia della Murgia fa in modo che si rifletta sull’argomento, perché, se anche la lettura scorre veloce e il libro viene divorato in poco tempo, capitolo dopo capitolo, le immagini restano ferme, incise nella mente.

Anche chiudendo il volume, il pensiero rimane al gesto definitivo di Tzia Bonaria: un assassinio? Un ergersi arrogante a giudice supremo, uno sfrontato sostituirsi a Dio?

Ma anche le “vittime” rimangono impresse: quelle doloranti in lacrime, quelle rese ormai mute dalla lunga agonia, quelle imploranti, tra lamenti e bestemmie, una fine che tarda ad arrivare e che invocano nel nome dell’anziana Urrai. Ed è in questi casi che il servizio ultimo reso a queste persone risulta allora un gesto di pietà, un benevolo porre fine alla sofferenza, un ormai inevitabile atto d’amore estremo. La donna stessa, potendo parlare, avrebbe probabilmente pregato per quell’atto risolutivo alla fine del libro, quando la sua prolungata, lenta agonia può sembrare la pena da scontare in terra per i crimini commessi. Davvero una sofferenza così lunga è il debito per una pena così grande nei confronti di chi già sta per morire?

Il libro termina, è una storia densa e breve, e il lettore rimane con il quesito in sospeso. Forse, riponendolo sullo scaffale per prendere un altro romanzo, nella sua testa e nella sua coscienza trova la risposta.

 

Copertina:

 

Michela Murgia

Accabadora

Einaudi, Torino 2009

  1. 166, euro 18,00