La parola figlio

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“Figlio è vicino alla parola foglia, figlio è vicino alla parola foglio”

di Walter Chiereghin

 

Abbiamo tutti familiarità con la semantica della parola “figlio”, non fosse altro che per il fatto che ciascuno di noi è figlio di qualcuno. Per comprenderla in ogni sua dimensione, tuttavia, non è sufficiente contemplare questa parola dal solo punto di vista del generato, ma si renderebbe necessario esaminarla anche dall’estremità opposta di questa imprescindibile relazione, dalla parte di chi genera e poi si prende cura. Per chi può farlo, si capisce, essendo oltre che figlio anche genitore. Da tale duplicità dei punti di osservazione di questa parola cosi usuale si può comprendere come essa sia centrale nell’esperienza umana e determinante nei fili delle relazioni con gli altri e con il tempo, quello da cui discendiamo e quello che ci apprestiamo a vivere nei domani che ci saranno concessi dalla sorte.

Questo rapporto elementare e al contempo intricato di implicazioni è stato esplorato con profondità e sincerità da Patrizia Rigoni, scrittrice, di origine lombarda, ma ormai triestina d’elezione, essendo residente nel capoluogo giuliano dal 2000. Ha visto così la luce La parola figlio, racconto lungo edito alla fine dell’anno appena trascorso, il risultato letterario di una lunga riflessione dell’autrice sui molti legami che la inscrivono al centro di una raggiera di rapporti affettivi e familiari, che si srotolano fin dai primi anni dell’infanzia per protendersi verso un futuro ancora in ombra, ma che emerge progressivamente alla luce, assistito dalla consapevole e vigile attenzione dell’io narrante.

Quello che si rivela con il procedere della narrazione, organizzata per frammenti che intenzionalmente tengono in scarsa considerazione il fluire cronologico degli eventi, è un’intricata messe di collegamenti tra i membri di una famiglia numerosa, dove pare che l’atto di mettere al mondo nuovi figli sia quasi l’attività prevalente: “quattro figli la nonna, quattro figli anche mia madre. Quattro figli la madre di mia nonna” (p. 14); lei, che si limiterà a due, ha la percezione di aver iniziato a essere madre quand’era ancora soltanto figlia, esercitandosi sui fratellini neonati, conservandone i cordoni ombelicali essiccati. Così, fin dalla prima pagina, si assegna un valore fondamentale alla materialità, alla concretezza di cose e apparati anatomici, ai cicli mestruali che tardano a manifestarsi e poi si eclissano nella menopausa, a tutto quanto costituisce il presupposto materiale di un’articolato coinvolgimento emotivo sul quale poggia la vita stessa, quella di relazione e quella interiore, col suo portato di ansie e di abbandoni, di serene vacanze familiari e di avventurose esplorazioni del pianeta, di non celate ambizioni letterarie e di bizzarre curiosità per l’entomologia, ad esempio, oppure per la botanica.

La maternità, fin dal titolo, è il soggetto che attraversa tutta intera la narrazione, come un corso d’acqua carsico affiorando con prepotenza nel fluire della memoria o, alternativamente, rimanendo sottinteso in molti passi. Una maternità che nelle varie fasi dell’esistenza è di volta in volta temuta (“Non basta nemmeno la pillola, ho sempre paura di restare incinta” p. 22), spiata nelle sue implicazioni astrali (“Nella quinta Casa del mio calendario astrologico, ho la Luna. La quinta casa è la Casa della famiglia, ma è anche la Casa della maternità. […] Come non bastasse è nel segno del Cancro […] Cancro, maternità, Luna: un corpo che è tutto ventre, gambe pronte a spostarsi in velocità, lo sguardo a trecentosessanta gradi ma rovesciato indietro allo scoglio, alla tana” p. 30), rievocata nell’autobiografia dei parti (”Il primo figlio nasce in luna nera, tira vento di novembre, resta addormentato per il tempo intero del travaglio” p. 40), rievocata nella dolcezza successiva al dolore e alle ansie del travaglio (Mi trovo al buio come un soldato in trincea, felice di essere scampato di nuovo alla morte. Il cuore pieno di felicità e la coperta ruvida di lana che mi riporta un pezzo alla volta i piedi, la schiena, le spalle. Addento quegli acini viola e torno femmina: sulle labbra mi scivola la stessa freschezza dell’acqua rovesciata sul sesso per aiutarlo a chiudersi” p. 61). Per limitarsi al solo atto della nascita. Ma la maternità, com’è ovvio, si dilata attorno ai figli che crescono, che diventano uomini, che si laureano, che fanno sport, che sono spiati con rispetto ma anche con una straordinaria tenerezza (“e quegli occhi sfumati e saggi, con cui già intimidiva e giudicava chi osava da bambino pizzicargli le guance, tornano verdi di felicità” p. 105) o con lo sbigottimento della lontananza (“Come immagino che possa succedere alle aquile, appena il nido si svuota, ho freddo agli occhi. […] Da lì in poi saranno congiuntiviti una dietro l’altra, visite e colliri, e un pianto che non affiora” p. 31).

La dimensione della maternità, nonostante tutto, non si appropria della totalità del libro, che mediante l’uso sapiente di una prosa densa e al contempo effervescente si anima progressivamente di altri personaggi. Questi sono di volta in volta comparse o protagonisti dei singoli frammenti che, come tessere di un mosaico, compongono il volume, il quale assume quindi la connotazione di un’autobiografia aperta, come ogni altra, a quanto vi possono apportare gli altri. I personaggi che animano il racconto non sono quasi mai indicati con un nome proprio, ma soltanto con la relazione che assumono nella vita della protagonista, il papà, la madre, il primo figlio, l’uomo nuovo, la figlia dell’uomo nuovo, il secondo figlio. E poi un amico pilota dilettante di piccoli aerei da turismo, recuperato per caso dopo quasi quarant’anni di lontananza e ancora altre presenze che ruotano attorno alla voce narrante che si spende nella tensione di raccontarsi, in uno sforzo di chiarezza, alternando qualche ermetismo nel tessuto altrimenti lucido e attento delle pagine di una prosa che a tratti si arrende a un breve abbandono lirico, a momenti auto-ironica, altre volte frammentata in essenziali discorsi diretti, atti a definire una situazione, uno snodo nella vicenda narrata.

La collocazione spaziale del racconto è quanto mai varia, considerato l’interesse per i viaggi della protagonista, che si ritrova in Amazzonia, nel Vietnam, in altre mete esotiche o nei cieli affrontati col suo pilota su un minuscolo biplano a due posti, a contemplare dall’alto, con trepidante apprensione, fiumi montagne e lagune dell’Italia. Una notevole perizia di paesaggista si rivela nella descrizione della città d’elezione: “Il Carso circonda Trieste come un mantello, la protegge e la isola. Il Carso sono le spalle della città, il mare sono i suoi piedi” (p. 15).

Una lettura intensa e assorbente, insomma, una confessione a cuore aperto, un libro da conservare e da riprendere in mano ogni tanto, come quando si ha desiderio di stare ad ascoltare la voce di un’amica.

 

 

Copertina:

 

Patrizia Rigoni

La parola figlio

Campanotto editore,

Pasian di Prato, 2017

  1. 160, euro 18,00