La poetica di Sergio Colussa, pittore

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Colussa ci apre finestre verso un infinito, nel quale sembra cogliere, di volta in volta, una sempre diversa determinazione costitutiva del vuoto

di Enzo Santese

 

Sergio Colussa fa arrivare i riverberi della sua ricerca in molte occasioni di confronto e rassegne a Gorizia, Pordenone, Trieste, Udine; e la sua opera è, peraltro, conosciuta in uno scenario molto più ampio, da Parigi a New York, dove continua ad avere significativi riscontri.

Il suo itinerario umano e artistico, si impasta fortissimamente di motivi che la sensibilità di uomo colto e raffinato coglie dai richiami e suggerimenti recepiti nella realtà dei musei e negli eventi espositivi, che hanno una marcata incidenza nella sua elaborazione culturale. I punti di riferimento diventano col tempo impronte su cui l’artista innesta il peso della sua via personale alla poesia del segno e del colore. Dall’espressionismo tedesco con un’attenzione specifica alla pittura di Franz Marc e di Wassily Kandinskij fino alla consonanza con alcune istanze costruttiviste di Vladimir Tatlin e di El Lissisky corre tutta una serie di seduzioni e suggerimenti che entrano nel reticolo fondante della poetica di Sergio Colussa; l’artista arriva poi in assoluta autonomia all’acquisizione di moduli creativi che attingono ed esaltano i valori significanti del colore e quelli formali di una geometria intesa come primaria componente della logica del mondo e, quindi, inesauribile fonte di immagini nell’arte visiva. Già nei tempi giovanili assume dalla pratica en plein air la consuetudine a catturare la luce nelle più diverse condizioni e con i più differenti effetti, ma più tardi – per sua stessa ammissione – sono i manoscritti inediti del pittore svizzero Johannes Itten, esponente del Bauhaus, ad aprirgli orizzonti lungo i quali si incammina per una ricerca personale attiva ancor oggi.

Fino agli anni ’80 l’immagine delinea una sua riconoscibile forma (per esempio le “Nature morte in posa”, certi paesaggi e alcuni “interni”), gli elementi figurali mai sono oggetti puri, ma simulacri che richiamano a una netta visione interiore. E qui le ragioni dello spazio diventano moduli ritmici con cui cadenzare la superficie e creare la sottile pellicola cromatica capace di indurre lo sguardo in una metaforica avventura della mente oltre il limite del piano. Nei paesaggi cova il presagio di contorni che si sfaldano svaporando in un indistinto che va a costituire una delle costanti della poetica, tutta rivolta a cercare il movimento nel rapporto tra la luce e le cose, nel mistero delle loro combinazioni reciproche.

Il silenzio di oltre vent’anni (in termini di uscite, confronti e rassegne personali) è la straordinaria cassa di risonanza che consente a Colussa di “auscultare” i battiti di un tempo interiore sospinto a verticalizzare lo sguardo oltre che nello scavo di sé, nella spinta “gotica” a spiritualizzare la pittura in un contesto che considera l’infinità del cielo l’alveo di scorrimento di una libertà espressiva con la sua norma generatrice nella geometria.

L’esito più recente della ricerca impegna Sergio Colussa ormai da qualche anno in una parcellizzazione dello spazio, dove le scansioni geometriche accentuano l’idea del ritmo, già insito nelle formulazioni cromatiche di ogni porzione (nella maggior parte dei casi, quadrata). L’artista fin dagli esordi ha avuto uno sguardo orizzontale, rivolto cioè alla realtà circostante considerata nella sua essenza; adesso il suo occhio “trafigge” il cielo in una tensione verticale. Il suo peraltro non è il risultato di una visione dell’esistente, ma un’azione “visionaria” che penetra le profondità cosmiche, in cui va a prelevare epifanie di luce, correnti di energia, vapori di materia pulviscolare in movimento e li traduce sulla superficie pittorica, percorsa da una luminosità diffusa anche là dove il colore mantiene tonalità scure. Sergio Colussa ci apre finestre verso un infinito, nel quale sembra cogliere, di volta in volta, una sempre diversa determinazione costitutiva del vuoto, che si riempie di situazioni formali preliminari a uno sviluppo metamorfico: disseminazioni puntiformi, sciabolate di materia pittorica, concrezioni di sfumature digradanti o crescenti, minime vibrazioni di segni “sotto pelle” sono evidenze di un impianto cromatico quanto mai ricco di soluzioni e complesso nella sua strutturazione interna. Sbuffi di vaporosità in espansione, percorsi da scie luminose che paiono correre dietro a vetrate d’alabastro, il gusto di una materia pittorica fluida e trasparente, elaborata con varietà di gradazioni entro riquadri che si aprono sulla superficie, qualche volta tessere di un mosaico che compongono un ipotetico universo, ridotto dall’artista a brani quadrati per esorcizzare quasi la vertigine dell’infinito. La sontuosità delle tessiture cromatiche possono rimandare a una serie di elementi atmosferici (le nubi, il cielo, effetti di condensazioni atmosferiche in quota, vapori sprigionati da una combustione oppure da un’eruzione vulcanica), in ogni caso sono dinamiche di energia che partono dal soggetto creante e a quello ritornano dopo un movimento circolare lungo cui l’autore assume in se stesso le ragioni fondanti di un’avventura poetica. L’arte di Sergio Colussa è essenzialmente un mondo nel quale esprime la cifra di una personalità marcata nella registrazione dell’esistente (esterno e interno, realtà fisica e dato psicologico) dentro un contesto segnato dalla sostanza dell’anima e dal ritmo di una musicalità che assegna ai dati della pittura la qualifica di “presenza”, un complesso di sollecitazioni pulsanti, di percezioni visive con la capacità di trasfondersi “sinesteticamente” nelle sfere sensoriali uditive e olfattive.

L’artista, per dirla alla maniera di Proust, interpreta il suo rapporto con la pittura come la necessità di un’“iscrizione interiore”, proiettata fuori dal suo perimetro profondo e segreto a illuminare la temperatura del proprio rapporto col mondo.

Nella più recente fase del suo lavoro, in contiguità con il concetto spaziale dei “teatrini” di Fontana, Colussa disloca sagome antropomorfe sul bordo inferiore della cornice, di cui esse appaiono quasi escrescenze lignee, come elementi di allusività figurale che dialetticamente si confrontano con la spazialità dell’opera. Il bordo non “chiude” il dipinto, anzi fa parte integrante dell’evento pittorico, che presenta forme addossate in un movimento intenso della geometria costitutiva.

L’operazione creativa vive anche su sequenze di aggiunte e sottrazioni dentro un impianto stratificato a collage, dove i brani di carta, rigorosamente quadrati, sono non ritagli generici e casuali, ma fotografie scattate dall’artista al Beaubourg di Parigi; è un modo per protendere la visione oltre la contingenza e cristallizzarla sulla superficie, dove le immagini vengono sbiancate e ricoperte da una tela a trama diradata. Così l’artista crea una suggestione di distanza e allontanamento, senza che vi sia il momento del distacco e della cancellazione.

L’opera si caratterizza per un affinamento della sintesi: da una rottura degli schemi geometrici va al riempimento del quadrato con materia minima; invece di far ruotare le forme, le blocca in una fissità apparente, entro cui si muovono e fluttuano.

Negli ultimi quadri – in cui è chiara la suggestione per il neocostruttivismo russo – la tela sovrapposta e distesa sull’immagine dà un’idea di appannamento e di distanza, come un diaframma tra il passato e l’attualità.