La solitudine della persuasione

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Saggi sul filosofo goriziano in un volume di Ilvano Caliaro

di Luca Zorzenon

 

«Chi non ha la persuasione non può comunicarla»: così Michelstaedter che, a rafforzare il concetto, chiosa dal Vangelo di Luca: «un cieco non può certo guidare un altro cieco». Ma la persuasione è possesso ab-solutus, perenne ed immobile di se stessi, istante del «far fiamma» di sé extra temporale ed extra spaziale, che brucia nel suo attimo ogni finitezza e storicità dell’esistenza umana. Neppure la persuasione può dunque esser comunicata.

In Michelstaedter la persuasione, la ricerca di una forma di vita che possieda un autentico e assoluto senso di se stessa, è anche drammatica condizione di solitudine e di incomunicabilità: colui che è persuaso è voce che chiama dalla cima di una montagna o da una landa desertica, nelle più diffuse figurazioni metaforiche. Ma è proprio dal punto di vista della persuasione che Michelstaedter può darci le grandi pagine sull’analisi della rettorica come forma istituzionale cristallizzata della vita inautentica, la denuncia della società di massa, della tecnica e della serialità industriale come ordinamento sociale repressivo del libero pensiero e della libera azione umana. È la forma sociale della vita-non vita: la φιλοψυχία (per citarla col greco di Michelstaedter), quel piacere falso e illusorio del vivere con cui nutriamo le nostre esistenze, mai realmente presente e sempre demandato al futuro, che ci vale a coprire e rimuovere il dolore sordo e continuo di un’esistenza senza senso e ci consente di oscurarne l’orrore.

La pars destruens de La persuasione e la rettorica, la sua ancor attuale potenza critica dell’organizzazione sociale e culturale moderna, è frutto di un individualismo eroico (di ascendenza romantico-borghese), di quel far fiamma di se stesso, abbagliante di verità e al tempo stesso incomunicabile, che brucia il persuaso e – nella famosa immagine del goriziano – ne spegne la vita come lume di lampada per improvviso travaso di olio sovrabbondante. Il «povero pedone», come Michelstaedter si definisce, è conscio di non aver sorte migliore dei grandi che lo hanno preceduto: dai presocratici a Socrate stesso, dai tragici greci a Gesù, da Petrarca ai moderni Beethoven, Leopardi e Ibsen. Maestri inascoltati e traditi dallo stuolo di rettorici edificatori di sistemi che nel corso del tempo ne hanno disinnescato le autentiche capacità di persuasione. Persuadere l’uomo ad essere persuaso e a distruggere la vita falsa della rettorica è stato ed è impossibile: «Io so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno», così inizia il capolavoro del pensiero di Michelstaedter. Aporia drammatica che nel pensiero e nell’arte grande-borghese del primo ‘900, per dirla con Asor Rosa, pone il problema di un irrisolto rapporto con le prospettive concrete di trasformazione del mondo: «Intorno ad essa noi sentiamo il vuoto dell’azione e della prassi».

 

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«Lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa». Nel suo Per una vita che sia vita. Studi su Carlo Michelstaedter Ilvano Caliaro raccoglie una serie di saggi michelstaedteriani il cui fulcro unificante, ed insieme più densamente problematico, è il capitolo intitolato Con Tolstoj verso Gesù. Da Kant a Kierkegaard a Schopenhauer a Nietzsche, sia pure da differenti punti di vista, la tradizione filosofica moderna rivendica alla figura di Gesù differenza e lontananza radicale dalla prassi storica e dalla dogmatica ecclesiastica istituzionale. In un punto che gli altri riassume: Gesù inteso come profeta di un “regno dei cieli” non sopra o oltre l’uomo ma dentro gli uomini, Gesù parola autentica di verità radicalmente persuasa e perciò parola-prassi immediata, che deve attuarsi nell’immanenza, senza riferimento a trascendenze metafisiche e teologiche. Caliaro sonda il rapporto di Michelstaedter con la figura di Gesù ricostruendo innanzitutto i termini della mediazione e dell’influenza esercitate sul filosofo goriziano dal Tolstoj de La confessione, punto di svolta esistenziale e ideologico del grande scrittore russo verso il suo alto magistero di umanitarismo sociale nutrito delle ragioni di una fede laica nelle possibilità di resurrezione terrena del senso autentico della vita umana.

«È Gesù – scrive Caliaro – ad incarnare l’idea di “persuasione” in Michelstaedter. Ma anche il Gesù di Michelstaedter, come quello di Tolstoj, è soltanto un uomo tutto teso ad individuare un valore assoluto per la propria vita e ad attuarlo, quindi un “maestro di vita”, di vita autentica, un “educatore”. Salendo sulla croce, donando cioè tutto se stesso, realizzando quindi compiutamente, radicalmente, il bene, egli ha salvato se stesso, ha cioè conferito un significato assoluto alla propria esistenza, ma non ha salvato gli uomini, poiché occorre che ciascuno si faccia salvatore di se stesso, ossia conferisca un significato assoluto alla propria esistenza.»

Il Gesù di Michelstaedter, nell’indagine di Caliaro, è figura che attinge al tragico: la tragedia del persuaso che, nell’additare a tutti con la parola e la prassi la via della salvezza (della «salute») dalla rettorica, salva in realtà solo se stesso, ed anzi viene «tradito» se, come è accaduto per le altre grandi figure michelstaedteriane della persuasione, anche il suo messaggio viene piegato nel tempo alle forme della inautentica, rettorica vita sociale.

La vocazione eminentemente pedagogica e sociale del persuaso che si vuole “educatore”, “maestro di vita” e che tuttavia sperimenta l’aspra contraddizione del riconoscersi impossibilitato a persuadere gli altri, trova nella figura di Gesù, secondo l’interpretazione di Caliaro, l’esempio più vicino e sofferto cui Michelstaedter guarda nelle pagine de La persuasione e la rettorica.

Pagine che, peraltro, nel loro previsto destino di solitudine, di rifiuto, di non-persuasione, Michelstaedter verga secondo un’inesausta tessitura dialogica, polifonica (e plurilinguistica), in costante corpo a corpo col pensiero e con la parola altrui, antica e moderna. Non a caso il saggio d’esordio del libro di Caliaro si intitola Voci: Michelstaedter ha bisogno di con-vocare nella sua scrittura i grandi maestri della persuasione, nei quali egli «ha rinvenuto un patrimonio di verità liberatorie» dalla tradizione dell’artificio rettorico, di sentirli vicini alla sua situazione di «tardo e misero» “discepolo”, di umile «pedone». Maestri tra i quali Michelstaedter cita anche Petrarca. Ed è al rapporto con Petrarca, in specie il Petrarca dei Trionfi, che Caliaro dedica uno dei capitoli del libro. La riflessione sul tempo e sulla dicotomia drammatica tra l’idea di eternità e la realtà di finitezza, entrambe costitutive della condizione umana, è il grande tema pertrarchesco che Caliaro riconosce influente nella pagina di Michelstaedter. Ma il conflitto in Petrarca tra «transunte e perenne» si converte nel filosofo novecentesco in quello tra «disvalore e valore»: «Se per Petrarca – scrive Caliaro – la deficienza della vita risiede non nella mancanza di valori bensì nella loro labilità, per Michelstaedter la deficienza della vita risiede nella sua correlatività», nella sua impossibilità ad attingere il possesso assoluto dell’autentico valore, costantemente espropriato dalla costruzione rettorica della vita e del discorso sociale. Quella inaccettabilità in Michelstaedter della condizione umana finita, precaria, storica che confina il valore della via alla «salute» che in lui ha nome di persuasione al perimentro della sola dimensione individuale.

 

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Quella di Michelstaedter è un’idea di persuasione che, nello stesso giro di anni in cui egli lavora alla sua tesi di laurea, deve confrontarsi con altre riflessioni su analogo tema ma di diverso esito. E basti qui l’accenno all’Arte di persuadere di Prezzolini (1907), quel« Giuliano il Sofista» che nei processi moderni di formazione della propaganda sociale e di confezionamento di pseudo-verità di massa intuiva, con buona dose di cinismo nihilista, nuove possibilità di affermazione della funzione dell’intellettuale. Persuasioni a confronto è il saggio finale del libro di Caliaro, in cui, invece, si sonda il rapporto tra le due differenti «ideologie» della persuasione in Michelstaedter e in Slataper, accomunati peraltro dall’identità storico-generazionale, dalla provenienza giuliana, dagli studi e dal soggiorno fiorentino, in quel primo ‘900 in cui Firenze fu capitale d’avanguardia della cultura italiana.

Se ancor oggi paiono acutissime le pagine di Michelstaedter sull’organizzazione rettorica dell’idea e del mondo del lavoro (fascinate anche da qualche suggestione marxiana), è proprio nella riflessione sulla nozione di lavoro che Slataper gradatamente viene a riconoscere il dovere etico di produrre un’opera (e non solo una parola) di amorosa persuasione del valore e del senso della vita che non sia «salute» solo individuale, ma condizione di prassi collettiva e sociale. Caliaro cita un appunto di diario in cui Slataper, dopo il suicidio di Michelstaedter, annota: «Quello che è stato disastro per Papini, Michelstaedter – felicità per noi. […] Costretti a vivere nella vita senza crederci. Nell’al di là non ci si può rifugiare: tutta la liberazione che viene dall’al di là manca. Non c’è immortalità, anima: dunque non gloria. Ma gli esseri attivi: lavoro. Ci siamo accorti che nel lavoro, nell’esprimerci nel sodo, c’era felicità.» È il lavoro della terza parte del Mio Carso, con intonazioni bibliche ma certo non scevre della consapevolezza dei moderni processi di alienazione: «Lavorerai piangendo dal disgusto, ma lavorerai». […] Il tuo dannato lavoro sarà, forse, eternamente vano. Ma lavorerai, come se tu fossi l’ultimo dei rimasti».

Più drastico, Slataper, in un suo scritto su Michelstaedter apparso sulla Voce, che Caliaro cita, e in cui si profila l’interpretazione filosofica del suicidio: «ammazzarsi non significa attestare la verità della propria convinzione, ma riconoscere la propria impotenza a praticarla».

Sulla scorta del Michelstaedter di Ilvano Caliaro, saggio importante le cui prospettive di indagine solo sinteticamente si è cercato qui di richiamare, si può aggiungere che in Slataper (il quale, forse in implicito confronto col goriziano, definisce se stesso, «impersuaso e contraddittorio») la ricerca della parola persuasa, quella «che supera la parola, che dà la cosa direttamente», può darsi solo nell’inevitabile e doloroso attraversamento della rettorica sociale cui la condizione di storica finitezza umana tutti inchioda, può esprimersi solo in un atto di etico volontarismo, non meno individualistico, ma che schiuda all’intellettuale le prospettive di una prassi sociale che spezzi il cerchio della solitudine e incrini il non-senso della «vita-non vita».

 

 

Copertina:

 

Ilvano Caliaro

Per una vita che sia vita Studi su Carlo Michelstaedter

Leo S. Olschki, Firenze 2017

  1. VIII-114, euro 20,00