La stagione secca

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di Anna Piccioni

 

Di norma sento la necessità di scrivere su un romanzo che mi ha particolarmente colpito per i contenuti per i personaggi, per la storia insomma che mi ha coinvolto emotivamente e anche razionalmente. Questa volta scrivo su un romanzo che fin dall’inizio avrei volentieri lasciato perdere: ma continuare la lettura è stata una vera e propria sfida. Non so se mi è piaciuto o meno, so solo che a volte ho provato fastidio, anzi mi ha letteralmente indisposto; ma in fondo anche questa è una reazione positiva: non è detto che sempre troviamo scrittori o scrittrici che assecondano il nostro modo di leggere.

Personaggi principali: Ana donna sessantaduenne, proveniente dal centro Europa, Lubiana, e Ismael giovane burkinabé, aitante nero; ambiente :Ouagadougou, Burkina Faso. E poi altri personaggi che fanno da cornice alla vicenda, ma fanno anche parte dei sogni dei ricordi degli incubi dei due personaggi principali. Potrei banalizzare la storia parlando di un incontro tra i due, parlare di sesso e di organi genitali che colpiscono sempre la vista della donna anche quando è disperata, o mescola alla sua storia la disperata condizione di bambini poveri, di violenze di furti, di omicidi, di sopravvivenza, di Thomas Sankara; di un’Africa nella stagione secca. «Questa terra è fertile se la guardi da vicino, se la prendi in mano e poi la lasci scivolare tra le dita. Vi brulica un numero incredibile di parassiti, e quando mancano i parassiti ci sono i topi e le pantegane e le lucertole e altri animali che si possono soltanto immaginare, che solo uno scrittore se li può immaginare anche senza averli mai visti con i suoi occhi».

Continuamente si rincorre l’autrice attraverso il personaggio maschile e femminile, se non si sta attenti alla desinenza non si capisce chi sta raccontando, lui o lei (sempre in prima persona).Ho raccolto nella lettura solo tristezza e disperazione. Affetti mancati desideri sospesi, una solitudine e incomprensione infinita. Ho sentito un mondo senza sogni, solo ricordi disperati che tolgono ogni via d’uscita.

Seguire le parole e le immagini, i pensieri, i racconti mettono a dura prova la lettura; sembra prevalga la non volontà di metter ordine. Il lettore è costretto a inseguire, tornare indietro per capire il livello spazio temporale delle immagini e dei pensieri che si sovrappongono. Ci si perde nei deliri della memoria. «Ciò che avevo visto dal finestrino del taxi non aveva nulla a che fare con questo. L’uomo che, camminando per una strada dritta e rossa che portava non a una casa poetica con la bocca al posto della porta e con la fronte al posto del tetto di lamiera, ma a un inferno rovente, non aveva nulla di tutto questo».

Mi chiedo se è voluto questo “disordine” oppure è una provocazione della scrittrice; o ancora è una ricerca disperata di uscire dalla stagione secca. Un ramo secco tagliato a volte nasconde ancora linfa vitale e timide foglioline cominciano ad apparire. Ma qui non c’è alcuna possibilità di riscatto. Fino alla fine ti aspetti qualcosa che dia la sentenza.

Il clima nella stagione secca trascina nella polvere persone, cose, memoria forse anche la coscienza: Morte e desolazione si alternano; anche la nascita è desolazione.

L’autrice non segue schemi tradizionali, anzi ti costringe ad uscire dalle tue certezze: causa ed effetto fanno parte di un mondo ordinato.

Nell’intraprendere questa lettura va abbandonata ogni idea di entrare in una storia, si entra nella coscienza delirante, anzi in deliri esistenziali .

Riprendendo in mano il romanzo e soffermandomi a leggere passi che ho sottolineato, ho potuto riconciliarmi con la scrittrice e riconoscerle momenti di prosa poetica.

 

Gabriela Babnik

La stagione secca

Traduzione di Michele Obit

Mimesis edizioni, 2017

  1. 309, euro 20,00