LA TRINCEA DEL SOLDATO MUSSOLINI

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Il Diario di guerra del futuro duce

riletto criticamente da due studiosi

di Luca Zorzenon

 

Tornato alla direzione del Popolo d’Italia dopo la convalescenza per le ferite riportate al fronte, il 15 dicembre del 1917 sul suo giornale, che ancora si qualifica “quotidiano socialista”, Mussolini scrive: «Questa enorme massa, cosciente di ciò che ha fatto, produrrà inevitabilmente degli spostamenti di equilibrio. […] I partiti vecchi, gli uomini vecchi che si accingono, come se niente fosse all’ exploitation dell’Italia politica di domani saranno travolti. […] le parole repubblica, democrazia, radicalismo; la stessa parola “socialismo” non hanno più senso: ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro i milioni di “ritornati”. E potrà essere un’altra cosa. Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale.»

Neanche un mese dopo Caporetto, nell’attribuire «immensa forza morale» ai milioni di reduci attesi da migliaia di mutilati e invalidi, Mussolini sposta il suo “rivoluzionarismo” dal proletariato, operaio e contadino, alla trincerocrazia: neologismo brutto, egli stesso riconosce, ma prima parola d’ordine di un suo scarto definitivo dal socialismo. Mussolini, il “rivoluzionario” d’elite, ha la prima intuizione moderna di una forma di potere che, entro una società in cui la guerra moltiplica e complica il protagonismo delle moltitudini, può tener saldo il fondamento di un dirigismo elitario e autoritario: una prima idea, in abbozzo, della sua prossima “rivoluzione passiva” di massa.

Sul passaggio politico importante che per Mussolini rappresenta l’esperienza al fronte, oggi conviene rileggere il suo diario di guerra, riproposto nel giro di pochi mesi da tante nuove edizioni. Fra esse spiccano per il valore dei curatori:. Mario Isnenghi per Il Mulino e Mimmo Franzinelli per la LEG.

Entrambi gli studiosi ripristinano con cura critica il testo così come Mussolini lo pubblicò in puntate successive sul Popolo d’Italia, indicando le sottrazioni e le aggiunte con le quali nelle successive edizioni in volume, degli anni Venti e Trenta, il duce, in ben diverse situazioni storico-politiche, lo manipolò: significative le censure antitedesche in funzione dell’alleanza col führer evidenziate da Franzinelli, non meno di quelle, rilevate da Isnenghi, sui toni anticlericali.

In ambedue le edizioni, i curatori corredano il testo di annotazioni e di un’appendice di interessanti testi di Mussolini e di articoli del Popolo d’Italia coevi al diario. I saggi critici dei due studiosi hanno taglio storiografico differente e possono completarsi a vicenda.

Isnenghi, ripercorrendo testi mussoliniani precedenti e posteriori all’esperienza del fronte, riflette su quanto e come la lettura del diario di guerra offra un contributo alla più vasta questione della svolta di Mussolini dal socialismo all’interventismo, in proiezione poi degli esiti futuri nell’immediato dopoguerra. Franzinelli, meno disponibile a sondare l’evoluzione graduale della personalità politica di Mussolini e a tratti più sbrigativo nel proiettare retrospettivamente sulle pagine del diarista i caratteri già a tutto tondo del duce, ci dà conto, con documenti coevi e posteriori, del tentativo di Mussolini di accreditarsi un’immagine eroica al fronte, quando invece plurime licenze, convalescenze dubbie, cartelle cliniche manipolate circa la reale gravità del suo ferimento, permanenze al fronte in zone poco rischiose convergono oggi a demistificarne l’autoritratto epico.

Pur diversi, i due saggi, convergono su una comune questione: la doppia immagine che di sé Mussolini offre. Non solo quella che oggi possiamo ricostruire (il miles gloriosus), che è l’obiettivo principale di Franzinelli, ma, in Isnenghi, quella sorta di “doppio binario” che il Mussolini di allora con tattica consapevolezza costruisce e su cui si muove in un passaggio critico della sua storia politica.

Nella lettura di Isnenghi è la trincea, per il soldato Mussolini, il primo e già fondamentale snodo della sua biografia pubblica. In un anno appena: dalla “settimana rossa” antimilitarista (prova meschina e inetta di capo-rivoluzione quella di Mussolini, la definirà Gramsci nel ’20 sull’Ordine nuovo) alla trincea nazional-rivoluzionaria. Da cui occorre uscire vivi: anche politicamente. Mussolini, al fronte dal settembre del ’15, ne esce alla fine di febbraio del ’17, con una quarantina di schegge in corpo per una maldestra esercitazione di tiro.

Durante l’esperienza di guerra Mussolini non rinuncia a pubblicare. Tra prima linea, licenze, convalescenze varie, Isnenghi ricostruisce con dovizia di articolazione storica quella sorta di doppia tribuna in cui si trasforma Il Popolo d’Italia, dalla quale in contemporanea, secondo diversi registri di stile e contenuti, Mussolini raddoppia, pur tenendola unita, la sua immagine lungo percorsi di scrittura che ora si intrecciano ora divergono. Il politico e giornalista carismatico che tuona contro la «bestiale logica neutralista», la peste del disfattismo, il Vaticano alleato all’imperialismo germanico convivono sul Popolo per circa un anno con le pagine vergate dal soldato semplice, nel fango e fra le bombe, secondo una calcolata strategia anche emotiva nei confronti dei lettori che, mentre si esaltano per il capopolo sferzante, seguono con trepidazione le rischiose vicende personali del fante, le descrizioni della quotidiana vita al fronte, monotona o drammatica, le rapide riflessioni sulla “guerra del popolo” , fino all’acme di quel titolo conclusivo, Ferito!, che chiude a inizio ’17 insieme la guerra e il diario: del Mussolini promosso a caporalmaggiore. Che, scrive Isnenghi, « è leader, e rimane leader, ma è gregario, e rimane gregario», «soldato e caporale, proletario in divisa. Doppiezza del suo personaggio, pubblico-privato.[…] Questa doppia identità […] è la realtà ideologica di questa particolarissima messa in scena di sé.»

Si può aggiungere che la strategia di scrittura del diario e di costruzione dell’immagine del Mussolini soldato si rivela meditata e accurata fin da talune notazioni redazionali alle pagine mussoliniane (che Isnenghi fa benissimo a pubblicare in appendice), in cui il “Popolo d’Italia” prepara il pubblico alla novità stilistica di una prosa secca, breve, che si snoda in prevalenza per sequenze paratattiche, frammenti e salti spazio-temporali, in descrizioni immediate e decise, talora volutamente sottotono, entro cui raramente si distendono riflessioni di più diffusa argomentazione: «verità, senza letteratura». «Non c’è merletto di frase, non c’è lenocinio di immagine; son pagine di vita vissuta – chiosa la redazione – che danno l’idea di ciò che è l’esistenza in trincea» per un pubblico che è «stanco oramai di componimenti letterari, ne’ quali la cianfrusaglia retorica toglie al racconto la bellezza rude della verità». Ove è consapevolezza matura di un rapporto “politico” tra autore e lettori in cui lo stile della scrittura è elemento essenziale.

Nella rinuncia virile alla “letteratura” c’è pur da annotare una singolare convergenza d’immagine con I fiumi ungarettiani: «L’Isonzo! Non ho mai visto acque più cerulee di quelle dell’Isonzo. Strano! Mi sono chinato sull’acqua fredda e ne ho bevuto un sorso con devozione.»

Non solo della letteratura intesa come vacua retorica Mussolini – avverte la sua redazione – vuol sbarazzarsi, ma anche, parallelamente, degli impeti alla «costruzione ideale dell’avvenire». Alla «bellezza di una lotta soltanto metaforica», alle «esaltazioni di fiori» o all’«inno al sole di maggio» – scrive la redazione – Mussolini vuol sostituire il valore ben altrimenti significativo e concreto «d’una lotta reale, grande, nella quale il fragore del cannone ritma degnamente il canto del trionfo immancabile». Nella prosa ridondante, emerge un principio evidente ed essenziale di liquidazione insieme delle attese futuribili della rivoluzione socialista e della canea, pur “radiosa”, di un interventismo che poteva prima nutrirsi anche di letteratura, ma non più oggi che il popolo del futuro, sotto lo sguardo del fante Mussolini, matura nelle sofferenze del fronte la prossima, nuova, aristocrazia della trincea.

Alla costruzione di una diversa scrittura si affianca nel diario quella dell’immagine pubblica del Mussolini soldato. Fante tra i fanti, esposto alla prima linea a condividere con il popolo patimenti e rischi, zelante esecutore di ordini, disciplinato e fervido soldato, ma via via figura catalizzatrice di elogi e riconoscimenti dagli ufficiali subalterni a quelli superiori, ai contadini, agli operai, alla piccola borghesia o a quella delle professioni.

Nota Isnenghi che Mussolini «castiga e modera quanto può il suo estroflesso io, studiandosi di disegnare dinamiche collettive volte in direzione di un noi». E, certo, – chiosa Franzinelli – nulla nel diario che cenni ai contrari alla guerra, ai renitenti, ai rivoltosi fucilati. Quello di Mussolini è, tuttavia, il ritratto di un popolo militarizzato, alto e basso in gerarchia sociale, che tutto converge in forma disciplinatamente centripeta sulla sua figura, di semplice soldato e di leader: il movimento che costruisce quel noi è dagli altri all’ego, quasi mai all’inverso. Si tratti degli analfabeti cui scrivere la lettera, di proletari che stupiscono al nome del politico e giornalista famoso, di ammiratori di ogni classe sociale, di ufficiali che lo elogiano, di alte gerarchie militari che ne sanciscono la conversione da rivoluzionario socialista a patriottico interventista. «Son io.» Risponde Mussolini a tutti, breve, secco e deciso soldato. Decisamente anche al Re, che, in visita al ferito, lo invita a soffrire senza un grammo di lamento. «In questo senso, – scrive Isnenghi – c’è già in nuce nella formula del diario quella che potrà essere la sintesi fascista, i due piani della volontà e dell’obbligo, dell’entusiasmo e della disciplina, l’ordine che consegue alla rottura: a ricalco – in fondo – della storia dell’Italia unitaria. […] Da movimento a istituzione, dal sovversivismo all’ordine militare».

La sofferenza senza lamenti, vissuta con sprezzo talora ironico, è tema ricorrente del diario, nelle ripetute descrizioni di soldati italiani caduti feriti e mutilati. Di ognuno Mussolini incide nome e cognome, rileva Isnenghi. Ci appare un’altra funzione catalizzatrice dell’ego del fante-leader, quella di cristallizzare per tempo nella sua persona la rappresentazione della futura memoria collettiva del lutto nella guerra di massa e le singole forme di stoicismo, l’orgoglio morale, il coraggio virile del soldato di una «stirpe italica» che si forgia moderna nel fango della trincea.

Seconda serie iterativa, e di altro segno, quella che insiste sulla descrizione (fin talora con un certo gusto del macabro e mai riservata ai fanti italiani) dei cadaveri dei nemici, delle necrosi e del fetore di putredine, degli squarci devastanti nei corpi, dello spappolamento di crani e cervelli. Gli orrori della guerra tecnologica, in notazioni secche e prive di emotività, si riversano con particolare effetto sui corpi dei nemici uccisi.

La chiave per interpretare questa doppia serie descrittiva che percorre largamente le pagine mussoliniane dal fronte è il ricorrere dell’espressione “stirpe italiana”, ben rilevato da Franzinelli, seppure con uno sbilanciamento forse troppo pronunciato sugli esiti razzisti del nazionalismo fascista del futuro duce.

Nella trincea, per Mussolini, sta mutando il carattere degli italiani. Nota Isnenghi che Il Popolo d’Italia, «inversione non lieve», riecheggia nel nome il mazziniano L’Italia del Popolo. Ma la guerra che osserva Mussolini è, invece, di posizione e logoramento, collettiva e di massa, in cui – egli scrive – le doti del soldato sono «di rassegnazione, di pazienza, di tenacia.» Non è più guerra risorgimentale, di eroismi singoli. «Questa guerra è la più antitetica al “temperamento” degli italiani», afferma Mussolini. E la «stirpe italiana», egli crede, corregge il suo individualismo nel duro cimento delle «nostre meravigliose facoltà di adattamento […] che pone il sistema nervoso a una prova durissima». Se il soldato italiano «brontola» non è per la guerra ma «per certi disagi o deficienze che egli ritiene imputabili ai capi».

E la massa dei fanti, ammette Mussolini, «non ha mai sentito parlare di neutralità e di interventismo». Nessuna eco del maggio radioso l’ha raggiunta. Ha risposto, senza discutere, a un ordine che è venuto, a un manifesto sui muri.

Pochi ma importanti, questi momenti di più distesa riflessione del diario. La massa, annota, «sente il nemico» istintivamente, ad esso replica con entusiasmo, ma non legge giornali e non ascolta discorsi. Al fronte l’opera di persuasione e incitamento morale e politico è pressoché assente, e il fatto che il soldato-massa si comporti con valore schiude pel momento a conclusioni positive: «Quale altro esercito terrebbe duro in una guerra come la nostra»? Ecco allora Mussolini, semplice soldato oggi e insieme capo politico che pensa al domani, riprendere in mano le pagine di Mazzini e citarle: «Mancarono i capi, mancarono i pochi a dirigere i molti […] che calcolassero tutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e di ordine per tutti.» La militarizzazione in trincea del popolo italiano dovrà, tornata la pace, esser corroborata dall’opera moderna di persuasiva e insieme autoritaria nazionalizzazione delle masse. Sull’esempio che Mussolini osserva, raro e singolare, di un generale che parla in trincea ai soldati, egli scrive: «È bene parlare spesso a quest’umile gente, cercare spesso di scendere verso queste anime semplici e primitive, che costituiscono ancora, malgrado tutto, uno splendido materiale umano.» La bellezza rude e semplice del «primitivismo» è definizione che in Mussolini accomuna tanto la guerra quanto il popolo-materiale umano. Per l’intanto, nella logorante «prigione di fango» della trincea, in cui «si vede il sole a scacchi, cioè attraverso una feritoia», «l’esserci adattati a questo genere di guerra – conclude Mussolini – è una prova meravigliosa delle qualità individuali e complesse della stirpe italiana».

Se il Mussolini giornalista scaglia i suoi strali sul pangermanesimo militarista e barbarico della razza tedesca, il Mussolini del diario si trattiene un minimo al di qua dello spregio nazionalista per il nemico. Approccio macabro dei sensi, piuttosto, nel fetore di cadaveri nemici mutilati, si diceva; ma anche brevi riflessioni, senza seguiti particolari, sulla muta ostilità delle popolazioni slovene di Caporetto e Plezzo e un’osservazione di sfuggita, ma non per ciò oggi meno significativa. Nel camposanto di Caporetto, che si allarga di giorno in giorno delle fosse dei soldati italiani, nota perplesso Mussolini, «l’unica fossa che abbia dei fiori è quella di un soldato austriaco e sulla croce sta scritto: “Joseph Waltha, dell’esercito nemico”. Il fatto è sintomatico.»

Per il futuro duce, che esce dalla trincea trincerocratico, l’esperienza e le annotazioni al fronte segnano un passaggio importante della sua biografia politica che oggi Isnenghi e Franzinelli ci permettono di meglio considerare. Renato Serra, la sua “ora di passione”, nel cupio dissolvi di una guerra che nulla, pensava, avrebbe realmente cambiato, l’ha consumata già nel ’15, nella morte rapida sul Podgora. La guerra per il soldato Mussolini, ferito e reduce, promosso caporalmaggiore, cambia tutto.

 

Benito Mussolini, Il mio diario di guerra, a cura di Mario Isnenghi, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 236 Euro 18,80

 

Benito Mussolini, Giornale di guerra 1915-17, a cura di Mimmo Franzinelli, LEG, Gorizia 2016, pp 160 Euro 22.