LA VITA DENTRO

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la-vita-dentro-di-claudio-grisancich-00435360-001È strano, mi sono trovata tra le mani in pochi giorni due libriccini di Claudio Grisancich, uno in versi e l’altro in prosa. Devo confessare che Grisancich è uno dei miei poeti preferiti. Ma anche nella prosa rivela grandi qualità, anche se io preferisco il poeta. Questa Vita dentro mi ha colpito perché l’autore nel ricordare momenti ed episodi del passato fa riaffiorare vicende e stati d’animo che le persone della sua / nostra generazione hanno vissuto. Un esempio: il secondo ricordo è legato a una celebre canzone del tempo di guerra, Lilì Marlene, indissolubilmente legata agli anni bui del fascismo, delle bombe, delle cantine dove, a Milano, ci si rifugiava appena suonava l’allarme. Grisancich parla dei suoi terrori di allora: era un bambino spaventato. In me non c’era la coscienza del pericolo che si correva, ma la memoria di quella cantina buia, dei rosari che gli inquilini recitavano per vincere l’angoscia è tuttora vivissima. Anzi, ricordo che una sera, quando il bombardamento cessò e noi potemmo uscire all’aperto, trovammo davanti al portone una bomba inesplosa. Si gridò al miracolo, dopo il grande spavento a posteriori, ma per me, ripeto, quella di correre in cantina con mia madre e mio fratello – nostro padre si rifiutava di seguirci e continuava a dormire – era un’avventura, anche se cascavo, letteralmente, dal sonno. Così anche a scuola: la maestra non faceva in tempo a cominciare un dettato sulla bandiera, che suonava l’allarme; mia madre correva e tutti insieme si scendeva nel rifugio della scuola. Sarà stato il 1944. Furono questi, gli anni più tragici della guerra, con incursioni continue degli aerei “nemici” su Milano.

Sogni e ricordi si confondono tra loro, in Grisancich. In sogno gli compare davanti, vestita di viola, la moglie. Come in quella bellissima poesia di Virgilio Giotti intitolata L’insogno (Il sogno), dove leggiamo: «Me go sognà stanote de la Lina. / No’ me ricordo indove che se iera, / no’ me ricordo gnente de’ sto insogno / che i su’ due oci // e un viola scuro: quel vistito viola / che ghe donava al viso dilicato” (“Mi sono sognato questa notte la Lina. / Non mi ricordo dove eravamo; / non mi ricordo altro di questo sogno, / che i suoi due occhi // e un viola scuro: quel vestito viola /e i suoi due occhi”. Che fare? L’inquietudine è grande; forse solo la vista del mare dalla finestra, può placare tanta ansia. Ma si veda, a questo proposito, la bella postfazione.

Il racconto procede per associazioni di immagini o di parole – Il basilico, la gru, i passeri -. A dominare la scena mi pare sia la figura del padre novantenne, quel padre a cui Grisancich ha dedicato una delle sue poesie più belle in assoluto, El camion. Vorrei ricordarla qui perché è una poesia fondamentale per capire quest’autore:

“el càmion iera grando / bel come un treno / bel dei odori de nafta / grando / come un monte che ’ndava dapertuto / co voleva mio pare // el ’ndava oltra i monti el mar / e la marina / oltra la vita / mi sognavo / che’l me vegniva incontro / traverso la polvere scura de la note / co’i fari spalancai / giusto a salvarme”.

L’affetto enorme che lo lega a suo padre, Grisancich lo rivela quasi a ogni pagina. Come dimenticare la felicità provata quando coi genitori andò a vedere al cinema Don Camillo? “Là era stato veramente felice… felice al colmo di una felicità quasi insopportabile…” (16). I ricordi degli anni di guerra si legano alla memoria di canzonette che venivano proposte ogni giorni alla radio, canzoni come “Sola me ne vo per la città…”. La ricordo benissimo; mio padre, pur essendo terribilmente stonato la canticchiava sempre. Ma a Trieste c’era l’orlo azzurrissimo del mare, che il poeta bambino guardava salendo su una sedia nella soffitta in cui nel 1945, viveva con sua madre. E con lo sguardo si spingeva anche più in là immaginando cose ancora più belle di quel mare, il Castello di Miramare, la “linea di terra di Monfalcone e Grado”. Mi è piaciuta molto anche la pagina sulla fisarmonica: un nostro vicino che abitava nella casa di fronte alla nostra ogni sera suonava, male, la fisarmonica. Quel ricordo emerge nettissimo attraverso le parole di Grisancich, che associa questo strumento a una cucina o a un’osteria. Perché, dice, la fisarmonica non sta mai nel golfo mistico di un grande “operà”(p. 48). Un altro ricordo legato al suono malinconico e struggente della fisarmonica. C’era un cieco che girava per i cortili di Cittavecchia con un bambino. Le sue canzoni erano malinconiche e le donne che lo ascoltavano spesso piangevano. Quella tristezza invade l’animo dell’uomo che ricorda, del poeta che nel sentire la voce della fisarmonica oggi prova dolore e tanta voglia di piangere.

Uno struggimento, questo, che ho ritrovato nel poeta siciliano Nino De Vita, e precisamente nel racconto in versi intitolato L’organettu, di cui proporrei qualche verso, nel dialetto di Cutusìo, una delle 107 contrade di Marsala.

 

L’ORGANETTU

Passau, pi’ ddui, tri vvoti, / ri nni mia, cu’ ’na speci / r’organettu. / Un picciriddu cc’jia / ravanti, a passu a passu, /c cu’ a tabbalera ’n manu. […] ’Un firmavanu mai. / Cu’ vulia / rari s’avia a ncugnari / a iddu; chi giurizziusu, / taliannu ô ’n / taliannu ô ’n facciu jia / e gghia. // Passàvanu r’u bbagghiu / e ddoppu si sintia

’a mùsica, luntanu, / muscia, chi s’astutava. […]

LA FISARMONICA. Passò, per due, tre volte, /davanti la mia casa, con una sorta / di fisarmonica. // Un bambino gli camminava/davanti, passo a passo,/con un vassoio in mano. // Non fermavano mai./ Chi

voleva/ dare doveva accostarsi/ al bambino; che serio,/ guardando avanti andava/ e andava.// Passavano dal baglio/ e dopo si sentiva/ la musica, lontana,/ fiacca, che moriva.[…] (Da Nnòmura, Nomi Mesogea, Messina, 2005).

 

Nell’ultima “scheggia” l’io narrante immagina di nascondersi in un sottomarino e ripensare alle persone amate, ai compagni di scuola, ai luoghi a lui familiari della sua città. Ma sono tutti morti e la città, la sua città, non la riconosce più, non si orienta più. Meglio, molto meglio rimanere nel sottomarino per sempre “e, improvvisamente, sentirsi un povero bambino col cuore gonfio di nostalgia”.