L’Alighieri secondo Barbero

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Laterza ha pubblicato una informata e leggibile biografia redatta dallo storico medievalista

di Gabriella Ziani

 

A scuola mandavamo a memoria terzine che sembravano astruse, dure come il banco. Ora, con le celebrazioni per i 700 anni dalla morte,  l’esplosione di eventi e studi rischia un’altra volta di vaporizzare Dante Alighieri nel nostro circuito mentale. Forse è bene ricominciare dalle basi, dalla tragica vicenda di quest’uomo antico, “eterno” e mitico come un profeta, vittima di un Medioevo politicamente insanguinato. Partendo dalla domanda: ma è così importante sapere se e dove Dante andò a scuola, se era nobile o no, quanto guadagnava, e che cosa combinavano i numerosi cugini, oltre che ricostruire tutti i maneggi dei guelfi bianchi e neri dai quali restò travolto?

è nota la diatriba critica se sia opportuno conoscere la biografia dell’autore per apprezzarne l’opera, o se al contrario l’opera debba vivere di luce propria, in una zona franca, perché potrebbe darsi il caso – e ce ne sono – che un testo eccellente ricavi ombra da autore moralmente o politicamente condannabile. Ne hanno discusso perfino Claudio Magris e il premier Giuseppe Conte nel dialogo svoltosi a Trieste in occasione di Esof2020, e riportato sul numero 470 della Lettura  del Corriere della Sera lo scorso 29 novembre. Nessun dubbio in questo caso: è finalmente ora di incontrare l’uomo Dante, per toccar con mano quella umanità, quel contesto sociale, la prosa della vita, preludio alla poesia.

Per entrare nel suo mondo “mondano” c’è una via sicura: la biografia Dante  firmata da Alessandro Barbero, uno degli storici più comunicativi e capaci di riportare a vita ciò che la Storia ha ridotto a sequenze di fatti e icone. Minuzioso nella filologica analisi, Barbero non si lascia scappare qualche sorridente battuta con linguaggio corrente, tipo «far vedere i sorci verdi ai fiorentini», «Dante crepava di rabbia», «come qualsiasi teen-ager imbranato era in preda al panico» (quando adolescente rivede l’amata Beatrice, già sposa a 17 anni), e anche «non ne capiamo niente», a proposito specialmente del periodo dell’esilio, quando i già rari documenti presentano lacune tali da sgomentare lo storico. Che peraltro documenti e testimonianze, memoriali e cronache, studi antichi e nuovi, cita a profusione, oltre che le opere di Dante stesso scrutate in cerca d’ogni possibile indizio su fatti e datazioni, dalla Vita nova, al Convivio, alla Monarchia, dalle ultime Egloghe alle lettere sopravvissute e, ovviamente, alla sterminata Commedia. E scrive così da renderli “viventi” essi stessi. Basti perciò soppesare il numero di note finali per capire lo sforzo di completezza e nello stesso tempo di essenzialità che ci mette in mano non solo sul biografato, ma sull’epoca, e sugli intricatissimi grovigli politico-sociali che devastavano la ricca Firenze del Due-Trecento. Un mondo dove le faide familiari e le lotte correntizie di partito comportavano esiti di feroce crudeltà: persecuzioni, torture, incendi, morte.

Eppure per Dante l’affacciarsi alla vita era stato assai promettente. Da giovane aveva potuto vivere di rendita grazie alle proprietà terriere di famiglia, il “bene rifugio” del tempo. Avendo tempo e passione, si era dato grande cultura, fino a rovinarsi la vista (filosofia, grammatica, retorica, astrologia, aritmetica, geometria, musica…). Non era in fascia sociale nobile, ma certo di solida e rispettata famiglia. Arrivò a godere di una posizione di primo piano nella gestione della cosa pubblica. Il punto più alto e purtroppo per lui disastroso fu l’elezione a priore della città di Firenze nel 1300: due soli mesi, molte conseguenze. Aveva moglie, la misconosciuta Gemma Donati, e cinque figli (l’ultima, chiamata Beatrice come la “fiamma” infantile che irrora il Paradiso, fu suora a Ravenna proprio grazie ai buoni appoggi del padre lì esiliato).

Poi, sappiamo, finì in miseria, spogliato di tutto tranne che di carta e penna. Per Dante, guelfo bianco (corrente guidata dalla famiglia dei Cerchi), le violente contese che scoppiarono fra il 1300 e il 1302 tra i ricchi, i “magnati”, in rivolta perché esigevano il potere da cui erano esclusi, e il governo che aveva in scranno almeno 600 popolani, e che misero Firenze sull’orlo di un colpo di Stato o addirittura di una guerra civile, avere un ruolo di alta responsabilità in un momento tanto confuso e drammatico si rivelò fatale. L’ambigua azione di papa Bonifacio VIII, di facciata disposto a far da paciere in aiuto ai bianchi, e di fatto armato a favore dei neri (capeggiati dalla famiglia Donati), fece precipitare le cose: l’inviato del pontefice, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, fece arrestare i capi dei bianchi, e i neri dilagarono in città: «Uccisero, saccheggiarono e incendiarono a loro piacere. Anche le proprietà di Dante vennero devastate…». Fu rovesciato il governo della città, «alla violenza anarchica – scrive Barbero – subentrò la violenza legale: i vincitori cominciarono a montare false accuse e istruire processi politici contro gli avversari». A inizio 1302 si contavano più di 600 esiliati. Tra questi, Dante Alighieri, condannato per corruzione, concussione e peculato.

Barbero: «Fu un processo iniquo? Senza dubbio: il nuovo regime si vendicava dei suoi nemici». Non presenti al processo-farsa, gli imputati furono considerati rei confessi e «condannati alla colossale multa di 5000 lire ciascuno». Una lira del tempo, ci informa l’attento medievalista, valeva circa 100 euro, dunque parliamo dell’equivalente di 50 mila euro. Se non avessero pagato, i loro beni sarebbero stati confiscati, le case abbattute. Nessuno pagò, la pena si inasprì con minacce di morte sul rogo. Per Dante si chiudevano le porte della città-mondo. Per orgoglio e per onore il poeta rifiutò in seguito più volte l’amnistia, “carità pelosa” la definisce Barbero, in quanto obbligava al pagamento di alte cifre e a periodi di prigionia o confino.

Perse Firenze, famiglia, amici, abitazione, casolari, poderi, uliveti, soldi. Perfino i suoi scritti sarebbero andati perduti se Gemma – che rimase a casa, né mai Dante sentì la sua mancanza  – non li avesse nascosti in un forziere consegnato a un convento. Si trovò in povertà, assaggiando «si come sa di sale lo pane altrui», trovando ospitalità nelle corti delle famiglie signorili venete e della zona appenninica, ancora improntate a cavallereschi ideali di lealtà cortese, per le quali fece lavoretti da segretario e forse da intrattenitore di lusso. Assieme ad altri “cacciati”, guelfi, ma pure ghibellini coalizzati nella disgrazia, per un paio di volte a partire dalla prima ribellione del 1302 con la riunione cospirativa di Gargonza, sperò che la sorte si potesse ribaltare con l’uso delle armi, ma sempre vi fu una disfatta.

Scrisse lettere veementi, inviò messaggi concilianti chiedendo perdono, e infine senza prudenza diede degli “scelleratissimi” ai reggitori fiorentini. Sperò nell’intervento di Enrico VII, re di Germania nel 1309, che scendeva armato per farsi incoronare re d’Italia e imperatore, e forse andò a incontrarlo a Pisa. Ma dopo un paio d’anni di conflitti senza soluzione Enrico morì nel 1313 a Buonconvento (Siena) e Dante perse l’ultima risorsa. La Commedia che andava intanto scrivendo era la sua rivincita: saldava i conti in terra e prenotava per sé la fama trascendente, così come gli aveva insegnato a pensare il suo maestro Brunetto Latini (che pur l’allievo sbatte all’Inferno fra i sodomiti, forse a conoscenza di atti più gravi perfino per l’epoca, non perdonabili neanche a un così importante mentore…).

Dante nasce nel maggio del 1265, suo padre Alighiero, calcola lo storico che ricostruisce la parentela fino ai trisavoli, deve avere allora più di 40 anni e muore presto, il poeta non ne farà mai menzione. Della madre, monna Bella, nulla si sa. Essendo le donne escluse dal trattare affari, non lasciavano dietro di sé atti ufficiali, solo scarne righe notarili riguardanti i contratti per la dote nuziale o il riscatto di questa e questioni ereditarie conseguenti.

Di tutta la famiglia – anche dei numerosi cugini Bellincione – sono invece arrivate a noi molte carte interessanti. Se ne deduce la relativa agiatezza di tutta la famiglia, a partire dal nonno, il primo dei Bellincione. Soldi guadagnati con attività di prestito, a tassi molto alti, del 20 o anche 25 per cento. Usura? In un certo senso sì, eccome. In teoria era condannata, di fatto praticata. E se Dante stesso risulta a un certo punto aver chiesto prestiti assieme al fratellastro per un equivalente di 100 mila euro, ciò non depone a favore di una sua povertà, perché i prestiti grandi potevano permetterseli (allora come oggi) solo i benestanti, ed egli risultava tra i maggiori contribuenti. Quando gli vennero confiscate le proprietà, fu certificato che rendevano 80 lire all’anno,  una cifra superiore allo stipendio di un lettore all’Università di Bologna.

Dante scende in politica a 30 anni. Fino a che ne ha 35, e vive a Firenze, com’è questa città? è una metropoli di 100 mila abitanti, una delle maggiori d’Europa, i banchieri ne fanno «la più colossale organizzazione multinazionale del mondo», nota Barbero che attualizza a nostro beneficio ma senza stravolgere il senso, è un centro commerciale in cui le ricchezze esplodono, e con esse dilagano «avidità, invidia, paura», e di conseguenza il contesto è feroce, e Dante disapprova, esaltando nel Convivio la virtù d’animo come unica radice della vera nobiltà, a cui intende ascrivere se stesso e il proprio contesto familiare  – salvo poi cambiare idea, quando ha bisogno di rifarsi un’immagine, e nella Commedia (Paradiso, XV) si attribuisce come trisnonno il famoso Cacciaguida, un cavaliere vero.  La sua Firenze, però, è anche un immenso cantiere. Ricorda lo storico che in quegli anni erano in costruzione le più splendide creazioni architettoniche, dal 1279 la chiesa di Santa Maria Novella, dal 1284 la Badia, dal 1295 Santa Croce, dal 1296 Santa Maria del Fiore, dal 1299 Palazzo Vecchio: «Come oggi Londra o New York, Firenze pulsava di vita e di denaro, e cambiava faccia senza rimpianti né riguardi per il passato».

Sappiamo che nel 1289, a 24 anni, Dante partecipò come “feditore”, cioè fante d’attacco “tra i meglio armati”, alla famosa battaglia di Campaldino in cui i fiorentini sgominarono gli aretini. Era un giovane in piena ascesa sociale. Con amicizie nelle famiglie che contavano: i Donati, da cui proverrà la moglie, i Cavalcanti, con il suo caro Guido, e i Portinari, clan della musa Beatrice, arcobaleno d’amore che non tramonta. Sposata a un cavalier Simone de’Bardi, la paradisiaca Bice morì venticinquenne nel  giugno 1290. Quanto al matrimonio del poeta, Barbero lo definisce «un groviglio di misteri». A partire dalla data del contratto di dote, che indicherebbe promesso sposo un Dante solo undicenne. Si chiede lo storico: unico caso noto di matrimonio tra bambini, o il notaio ha sbagliato giorno e anno? E perché una dote così misera (la metà o anche meno di quanto fosse consueto)? Forse gli Alighieri premevano per nozze convenienti e si accontentarono, e i Donati furono lieti di risparmiare un po’? Da notare che i Donati erano i potenti caporioni dei guelfi neri, e che Bonifacio VIII soprattutto per interessi finanziari suoi personali li appoggiò nel momento di crisi decisivo, quello da cui dipesero la condanna e cacciata di Dante – uno dei tanti pasticci, incroci e svolte in cui lo storico deve aiutarci a ritrovare la bussola.

E lo fa con leggerezza, scandisce la biografia in capitoli brevi e a tema, non ci sentiamo sovrastati ma immersi in quei tempi e fra quella gente, e infine anche i “non addetti” sono in grado di profilare una visione dei fatti, pur nell’intreccio aggrovigliato degli eventi storico-politici: Dante pagò per la doppiezza degli avversari (papa compreso, appunto), per la propria coerenza e forse per ingenuità nel maneggio politico, per aver preso la parola imprudentemente in un punto di soglia tra contesa cittadina e guerra civile, e nella disgrazia non solo fece quel che fece (tentare alleanze, spingersi ad azioni armate, lanciare appelli, rifiutare condizioni umilianti, sperare nel re straniero) ma anche qualcosa di più singolare e profondo: cambiare idea.

è uno degli snodi su cui Barbero punta il faretto della sua acuta indagine. Dante, abbiamo visto, inneggia inizialmente alla virtù come unico segno di nobiltà individuale, ma poi si vanta di aver per trisnonno appunto il “nobile” Cacciaguida. Era guelfo e di parte bianca, ma si allea in esilio con ghibellini e neri in virtù della comune disperata sorte, fino a esprimersi così da sembrare un ghibellino egli stesso. Era stato esponente di un governo comunale a base “popolare”, ma quando dovette girare di signoria in signoria per farsi mantenere, «peregrino, quasi mendicando», e affermava di avere «per patria il mondo, come i pesci hanno il mare» (fu a Verona dai Della Scala, a Sarzana dai Malaspina, dai Guidi a Poppi, a Bologna, poi caduta in mano agli odiati neri, a Padova, forse a Treviso, e in mille altri luoghi di cui nulla ben sappiamo – «abbandonato a se stesso» lo dice Barbero) si allontanò «dall’ideologia popolare e comunale» adeguandosi al potere signorile e allo stato di “sudditanza”. Quando ancora spera nell’intervento su Firenze di Enrico VII, il re straniero, Dante nella Monarchia scrive che «la sola vera libertà è l’obbedienza spontanea alla legge di Cesare che per volontà divina deve governare tutta l’umanità e che rappresenta l’unico potere veramente pubblico, garanzia di convivenza civile». Tutti gli altri poteri, Comuni compresi, «non rappresentano altro che interessi privati». Commenta Barbero: «Una svolta sbalorditiva per un uomo di Comune». Il frutto di una potente delusione, il frutto della rabbia e del dolore.

Tutto fu inutile. Truppe residue del già defunto Enrico marciarono coi pisani su Firenze e le inflissero «la più catastrofica delle sconfitte». Non solo Dante (un’altra volta!), ma anche i figli furono condannati a morte. Era l’ultimo atto. Il 4 gennaio 1321, il poeta arriva a Ravenna invitato da Guido Da Polenta, che durante il soggiorno lo usa come ambasciatore, ed è appunto tornando da Venezia via terra – essendogli stato negato il percorso per vie d’acqua – che  si ammala di malaria. Dante muore nella notte fra il 13 e il 14 settembre, a 56 anni.

I due figli a lui più vicini, ormai consapevoli del genio che si propagava dalla Commedia in parte pubblicata, si misero in cerca degli ultimi tredici canti. Racconta il Boccaccio che, non trovandoli, pensarono di creare da se stessi un apocrifo, ma che poi in sogno apparve loro un ripostiglio segreto, dove andarono a frugare, trovando il tesoro mezzo ammuffito. Se l’episodio è vero o no, non si sa, come tante altre cose purtroppo. Ma se i misteri non saranno mai più chiariti, quel che resta è comunque tanto. Vivamente consigliato non perderlo.

 

 

 

Alessandro Barbero

Dante

Laterza, Bari-Roma, 2020

  1. 361, euro 20,00