L’amico degli animali, Umberto Saba

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di Fulvio Senardi

 

Se è assolutamente vero che in prospettiva epocale e continentale la “fortuna” di Umberto Saba non rispecchia affatto la qualità poetica (nel “canone europeo” proposto da Carlo Ossola, Nel vivaio delle comete. Figure di un’Europa a venire, Marsilio, 2018, solo Ungaretti e Montale vengono presentati come “impossibili da rimuovere dai nostri scaffali e pensieri”), conforta il fatto che gli studiosi abbiano ripreso ad occuparsene. Così, ad arricchire una stagione che ha visto depositarsi, nel giro di poco più di un decennio, parecchi contributi significativi (con approccio “generalista” la monografia di Stefano Carrai e di chi scrive, con messe a fuoco più particolari Alessandro Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba. Da ‘Ernesto’ al ‘Canzoniere’ e Marina Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba), è ora a disposizione degli studiosi L’arca di Saba – “i sereni animali che avvicinano a Dio” di Marzia Minutelli, alla quale lasciamo subito la parola.

“Gli affabili componenti del tutt’altro che blasonato ‘bestiario’ che abita gli scritti sabiani”, spiega, “si vedono finalmente riconoscere paritario diritto di cittadinanza con l’‘animale uomo’ in ragione del loro specifico statuto ontologico, in quanto cioè detentori di un’originaria purezza illesa dalla storia […]; e anzi, proprio in grazia di tale preservata autenticità diventano, come e più dei ‘fanciulli e garzoni’ gli intermediari per attingere […] la verità profonda della ‘calda vita’” (pp. XI-XII). Questa la suggestiva ipotesi interpretativa che riconosce nel mondo animale, evocato da una serie di presenze minuziosamente catalogate, il tramite della più costante ricerca morale ed esistenziale di un poeta eternamente insoddisfatto di sé.

Posto che l’uomo orfano di principi primi cerca un segno capace di orientarlo, non sarà forse abbassando lo sguardo, nella negazione di ogni visione trascendente, che potrà trovare un nuovo universo di valori, riconoscendolo dentro la sfera dell’istinto (il “sapere organico” della Scorciatoia 20)? E dove tutto ciò è meglio leggibile se non nei sereni animali che avvicinano a Dio (sive Natura)? “Uomo”, declama il poeta in una delle poesie con le quali prende congedo dalla vita, “la tua sventura è senza fondo. / Sei troppo e troppo poco. Con invidia / (tu pensi invece con disprezzo) guardi / gli animali, che immuni di riguardi / e di pudori, dicono la vita /e le sue leggi. (Ne dicono il fondo).”

Esaurita questa breve premessa, è però il caso ora di vedere L’arca di Saba più da vicino. Un libro, che, sono facile profeta, certo rappresenterà un termine di confronto ineludibile per la futura critica sabiana (è la stessa Minutelli, per altro, a offrire infiniti stimoli di dialogo e occasioni di riflessione nel ricchissimo bagaglio di note che tracciano un percorso ragionato in ciò che di meglio è stato scritto sul poeta triestino). Sette capitoli distribuiti in due parti, alcuni dei quali già apparsi in rivista in forma di saggio e di cui è bene illustrare, sia pure con rapida sintesi (che certo non fa giustizia all’opera nel suo complesso), le proposte interpretative. Il primo, L’immaginario animale del giovane Berto, ci porta alle scaturigini dell’esperienza poetica: ancora in fase post-dannunziana e pascoliana, Saba resta distante, sostiene Minutelli, dall’“indiscriminata compartecipazione all’esistenza creaturale” (p. 21) e indirizza la sua percezione del mondo animale secondo una suggestione insieme “biblica e realistica” (19), a costituire un bipolarismo “imperniato sulla coppia oppositiva terra e aria” (che rimanda alla “dicotomia simbolica […] madre-padre, pesante-leggero, statico-immobile” – 19). Il secondo capitolo, Con gli occhi delle bestie, pone al centro l’esperienza di Umberto soldato che vive momenti di forte empatia con i compagni in divisa (ma anche di insopportabile fastidio se dalla caserma può scrivere all’amico Francesco Meriano, è “come esser fatti prigionieri dalle bestie”). Resta il fatto che la partecipazione a quella nuova esperienza di umanità semplice e rozza consente di sfuggire a pregiudizi e a fissazioni di radice sociale e culturale per vedere il mondo in maniera rinnovata: “così le bestie lo vedono forse” (Saba). Ancorato sull’“ineludibile coté giudaico” – 51 – (questo il basso continuo della lettura di Minutelli) il poeta sfugge, mirando a una condizione di “bestiale innocenza”, allo “spocchioso equivoco verticista di un cosmo risolutamente orientato rispetto all’uomo, misura di quanto esiste e termine ultimo della creazione” (71).

Dopo una breve sezione che serve per una messa a punto cronologica, tematica e di metodo (Il ritorno del soldato: il tempo di “Casa e Campagna”), nel capitolo secondo della seconda parte Minutelli affronta il “polo magnetico” (92) di Casa e campagna, A mia moglie. “Senso del sacro, ritorno d’infanzia, stato di natura” (92), acquistano luminosa evidenza nel corteggio dei “sereni animali” in cui il poeta riconosce “le elementari epifanie del sacro” (95). Una verità di cui “solo il fanciullo, ancor meno distante dai fantaccini salernitani dall’ancestrale naïveté delle bestie, possiede la facoltà di intendere e anzi, di partecipare intuitivamente” (96). Nelle serrate perlustraziani filologiche di questa sezione (salvo la grande parentesi in cui si tocca il motivo della paternità riluttante dell’uomo Saba) Minutelli ribadisce il proprio assunto: il retaggio giudaico è centrale e prevalente, e nella fattispecie rimanda non solo, com’è intuitivo, al Cantico dei cantici, ma pure ai Salmi, ai Proverbi, alla Genesi (vedi p. 154). Bella sfida all’enigmaticità di una lirica così semplice e così immediata che si traduce in una virtuosistica e puntigliosa mappatura biblica.

In “Una bestia di meno”: il maiale, il saggio che segue, viene invece affrontato e sciolto il quesito sul perché una composizione, Il maiale, che Saba dovette incondizionatamente apprezzare (altrimenti, ed è solo una delle prove addotte da Minutelli, non avrebbe scelto di inserirlo nel gruppo ristretto di sue composizioni per l’antologia di Papini e Pancrazi, Poeti d’oggi, 1920) sostanzialmente “sparisca” dalle forme del Canzoniere posteriori al 1921. Lirica che va peraltro compresa a “partire dal presupposto che è anche, in un suo modo sghembo e spregiudicato, una poesia giudaica”, realizzandosi in essa, come in uno “specchio etologico offerto ai goyim […], una provocatoria assunzione sopra di sé dello stereotipo anti-semita”. Quasi una parabola “che, mentre garantisce la perdurante soggezione del Saba autore al ‘richiamo’ del sangue materno, certifica altresì l’irriducibile eterodossia di siffatta ebraitudine” – 168. Qui, secondo Minutelli, la risposta (o parte di essa: il Maiale è anche gravato, sottolinea, da debiti fastidiosamente evidenti con le fonti): essere “emblema del popolo perseguitato” (185) e di conseguenza soggiacere a un’“esigenza inibitoria”, avvertita da Saba, in epoca di persecuzione trionfante, per “un riguardo alla sua gente martoriata” (183).

In un approccio critico di prospettiva così angolata non poteva ovviamente mancare uno spazio dedicato alla Capra (Alloglossia sabiana: il dialogo con la ‘capra dal viso semita’), poesia, se ve n’è una, “tutta innervata di spirito giudaico” (195), anzi, insieme a Bersaglio, per aperta ammissione del poeta, “i due punti caldi della propria judeité entro il circuito del Canzoniere” (205, nota).

La fruttuosa esplorazione di Minutelli si chiude con una lunga riflessione sulla presenza cane nella poesia del triestino (Il cane, i cani), il saggio più ampio del volume anche per la estesa digressione in cui Minutelli muove alla ricerca del volto vero dell’interlocutrice di “Guardo, donna, il tuo cane che adorato / ti adora” (una analisi che avrebbe forse meritato, anche per ragioni di coerenza testuale, uno spazio a parte, tanto più che non riesce a garantire, dopo un assai lungo discorrere, un risultato incontrovertibile). Osservando che il cane è stato l’“estrema oggettivazione automitografica” del poeta del Canzoniere (267): “fui sempre un povero cane randagio” (Ultima), Minutelli prende l’avvio da Insonnia in una notte d’estate, di cui ci offre una fine lettura variantistica, allargando poi il discorso fino a toccare il “ben giudaico, assai prima che nietzschiano, sentimento di simultaneità, di acronica saldatura con le generazioni trascorse” che caratterizzerebbe il sentimento del tempo del poeta triestino – 225 (dove si giunge, come si comprende bene, a un bivio assolutamente cruciale dei possibili approcci a Saba).

Detto questo, non sarà ozioso aggiungere qualche ulteriore precisazione: lo strumentario del quale Minutelli si avvale è quello della filologia: scelta di grande responsabilità perché dà accesso agli spazi, fin troppo sterili, di un “laboratorio”. Se però a tratti il discorso risulta tecnico e ipersottile come sempre nelle sedi di alta specializzazione, il rischio di freddo tecnicismo è riscattato da una non comune disposizione intuitiva, che riscalda il coltissimo slalom tra ipotesti, fonti, varianti, agganci intertestuali. Non mentiremo sostenendo che si tratti di un libro di svelta lettura: la materia è complessa, e la scelta della Minuteli di muoversi con passo stilistico-espressivo più che sostenuto non semplifica il compito. Nondimeno chi vorrà misurarsi con L’arca di Saba (soprattutto, immagino, nel campo degli addetti ai lavori) ne trarrà non poche occasioni di nutrimento.

Chiudo con una riflessione su Saba e gli animali, che nasce spontanea dalla lettura dell’intrigante volume di Minutelli. Lo zoo del triestino consiste di animali di stalla, di cortile, di compagnia. E poi, nell’ultima fase della vita, di volatili di gabbia e di uccellini del libero cielo. Non è tutto il mondo animale, anzi, a ben vedere, una minima parte di esso. Un bestiario liberato dal male, se non come offesa patita. Scelto a riscontro del sogno del poeta di affrancarsi da sovrastrutture etiche che falsificano, coartano o deformano la Natura. Si ammira la furbizia di un intellettuale che, allorquando sfiora tematiche di filosofia morale, si fa astuto come un serpente (e “puro”, ovvero finto ingenuo, come una colomba), per restare nella rubrica zoomorfa. Tra le Scorciatoie ed Ernesto, dove ci si immagina di trovare un diligente allievo di Freud, si incontra invece, in tema di repressione, un “marcusiano” ante litteram. E quanto alla zoologia, tra belati, cip-cip e bau-bau, resta inevasa la domanda fondamentale. Che evochiamo lasciando la parola a William Blake, all’alba del romanticismo, nella traduzione di Ungaretti: “Tigre! Tigre! […] / […] / Chi l’Agnello creò, creò anche te?”