L’arte dell’oscillazione tra filosofia e follia

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Un saggio di Pier Aldo Rovatti

di Stefano Crisafulli

 

‘Imparare un’arte dell’oscillazione’ e ‘introdurre lo strumento della follia nella nostra svuotata cassetta di attrezzi del pensiero’. Questi gli obiettivi del filosofo Pier Aldo Rovatti, descritti nel suo saggio Le nostre oscillazioni. Filosofia e follia, pubblicato recentemente nella collana 180 per le edizioni Alpha beta Verlag (Merano, 2019, euro 12). Si tratta della nuova edizione di un saggio apparso nel 2000, La follia, in poche parole, che Pier Aldo Rovatti ha sentito l’esigenza di riproporre (con un altro titolo che, come spiega nella prefazione, ‘vada direttamente al punto’) per riprendere la ‘riflessione sulla prossimità tra filosofia e follia’, ormai resa invisibile. ‘Nel pensiero unico oggi dominante – spiega ancora il filosofo modenese – ogni traccia di ‘follia’ è stata cancellata’.

Ma di quale follia si sta parlando? Vi sono, infatti, due significati (e forse di più) che si intrecciano nel saggio: quello della ‘follia dei folli’, contrapposti ai ‘sani di mente’ e portatori di una sofferenza psichica e quello della follia che alcuni pensatori hanno introdotto nei loro discorsi e che si ritrovano nelle pagine di Rovatti in qualità di interlocutori privilegiati: parliamo di Foucault e Derrida, in primo luogo, ma anche di Husserl, Freud, Sartre, Lévinas, Laing e, ultimo ma non meno importante, l’antropologo Gregory Bateson. In che cosa consiste, dunque, l’arte dell’oscillazione e in che modo ha a che fare con la follia del primo e del secondo tipo?

Per quanto riguarda il primo quesito, la parola oscillazione si avvicina ad altre che richiamano un andare e tornare, una ‘pulsazione ritmica’, come quella del dubbio, della sospensione (o epoché, termine usato dalla fenomenologia di Husserl), del ‘paradosso’ e della ‘respirazione’. Partiamo da quest’ultima: il respiro è un’esperienza di cui tutti siamo consapevoli ed è una forma ritmica, oltretutto per noi vitale. Far respirare i concetti, dare spazio al dubbio e alla sospensione, significherebbe, per Rovatti, saper oscillare tra ragione e sragione, stando ‘a cavallo di un muretto’, in una posizione scomoda tra l’una e l’altra, senza saltare al di qua o al di là di esso. Praticare, insomma, l’arte di oscillare, vuol dire non precipitarsi a definire, una volta per tutte, cosa sia la follia.

La seconda questione è, però, molto più complessa. E controversa. Perché parlare di follia implica sempre l’utilizzo della ragione e, come si fa notare nel capitolo dedicato allo scambio tra Foucault e Derrida, non esiste un linguaggio ‘neutro’, che possa descrivere la follia dal di fuori. Ma – dice Rovatti – si può invece ‘introdurre un silenzio nelle parole’, oscillando dentro e fuori la follia, in un modo inevitabilmente paradossale. Rimane però una domanda, che l’autore non evita nel saggio, ma che qui va ulteriormente ribadita: si può oscillare veramente, oppure, in fondo, si resta sempre al di fuori e il nostro è solo un gioco, una finzione?

Gregory Bateson, citato più volte, direbbe che, per constatare una reale differenza, è necessario un salto di tipo logico, quello che lui chiamava un apprendimento di secondo livello (vedi Verso un’ecologia della mente, nel capitolo Le categorie logiche dell’apprendimento), ad esempio qualcosa che ci porti dal regime del discorso ad un’esperienza concreta. Ma, in questo caso, si porrebbe un ulteriore problema: la ‘follia dei folli’ porta con sé un carico di sofferenza che non si può eludere. Ne è consapevole lo stesso Rovatti quando, nell’ultimo capitolo, dal titolo eloquente (E la sofferenza?), riporta la seguente obiezione di un’operatrice psichiatrica: ‘L’esperienza della follia porta con sé anche l’esperienza della sofferenza ed è da qui che bisogna partire’. Risponde il filosofo: ‘È molto difficile darle torto’, aggiungendo, però, che ‘il rischio è quello di prendere per buona la sofferenza e di farne un valore’. Sta di fatto, però, che un apprendimento di secondo livello, supponendo che fosse possibile, avrebbe come effetto collaterale l’esperienza ineludibile della sofferenza. Se invece si rimane nel regime del discorso, allora il concetto di follia può essere inteso come un necessario spazio di libertà per un pensiero che, come afferma Rovatti, è divenuto asfittico e acritico. Per questo la parte più importante e attuale del saggio si trova nel capitolo La follia dell’altro: qui lo spaesamento dato dall’estraneo diviene un modo per riconoscere l’estraneità che già è in noi, ad esempio, freudianamente, sotto forma di inconscio. Non serve, come fa il protagonista della Tana di Kafka, chiudersi dentro il proprio fortino, ma, anzi, offrirsi al paradosso dell’ospitalità. Oggi più che mai.