L’arte di Ugo Mulas in un suo libro

| | |

«La fotografia ha cambiato molte volte faccia e sicuramente quella che oggi si pratica comunemente non ha niente a che fare con quella vagheggiata da Niépce»

di Paolo Cartagine

 

«Negli anni ’50 ero un giovane studente di Giurisprudenza a Milano, bivaccavo quasi sempre al Jamaica, un caffè di via Brera dove si riunivano artisti con pochi soldi. Qualcuno mi prestò una vecchia macchina fotografica e mi disse: un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque-sei all’ombra. La presi in mano con enorme diffidenza».

Così Ugo Mulas sintetizzava il suo ingresso da autodidatta nel mondo della Fotografia, di cui sarà – nella sua purtroppo breve stagione conclusasi nel marzo del ’73 a soli 45 anni – uno dei fotografi più importanti della seconda metà del Novecento, tuttora molto apprezzato forse più all’estero che in Italia.

Al Jamaica Mulas fece due incontri determinanti: con Nini Buongiorno – che diventerà sua moglie e che lo aiuterà nello studio fotografico professionale – e con Mario Dondero, altro straordinario fotografo con cui realizzerà un reportage sulla Biennale di Venezia del 1954 pubblicato su Le Ore.

La carriera di Mulas prese il volo e il mondo dell’arte internazionale costituirà il suo soggetto d’elezione.

Lo possiamo constatare in Ugo Mulas, La Fotografia, uscito postumo nel ’73 su iniziativa di Paolo Fossati nella collana Einaudi Letteratura (ristampato nel ’74 e nel 2007), un classico dove Mulas costruisce la narrazione abbinando sue «foto che hanno per tema la fotografia stessa» con testi da lui appositamente scritti. La storia della sua vita. Un riesame in montaggio cronologico del suo fare fotografia condensato in 180 pagine, quasi 140 sue fotografie bianconero corredate di commenti originali, stringati e illuminanti per spiegare il dietro le quinte, il perché delle scelte, i dubbi, le inquietudini, le soluzioni e le invenzioni espressive.

Realizzato in maniera coinvolgente e semplice – cioè attenta e sorvegliata per parlare in realtà di questioni complesse – è un libro non usuale nell’editoria fotografica in quanto redatto dal di dentro: un fotografo di alto profilo internazionale si spinge oltre l’oggetto-fotografia da produrre e vendere, e va alla ricerca dei nuclei elementari che la compongono, dalle intenzioni dell’autore all’uso dei dispositivi di ripresa e stampa, dalle potenzialità comunicative al marketing commerciale.

Lo scopo dichiarato era quello di innescare cortocircuiti tesi a superare convenzioni e canoni, categorie e strategie mutuati dalla storia dell’arte e innestate nella pratica fotografica, per trarre dal passato nuovi itinerari e intravedere il futuro. Una ricerca teorico-sperimentale sulla specificità del medium fotografico, strumento imprescindibile ma al contempo per Mulas – che guardava sempre al rovescio delle medaglia – barriera fotografo-mondo.

Il libro inizia con l’omaggio a Niépce, che attorno al 1820 aveva «sganciato la mano dell’uomo dall’operazione creativa» realizzando quella che è ritenuta la prima fotografia.

Segue la rivisitazione del periodo 1954-’70 in cui, accanto a un reportage neorealista sulle periferie di Milano, incrociamo numerosi protagonisti del mondo culturale e artistico italiano e non solo, della Pop Art newyorkese degli anni ’60, nonché delle Biennali di Venezia compresa quella del ’68 contraddistinta dalla contestazione in Piazza San Marco. Fra gli altri, i suoi amici Duchamp, Warhol, Burri, Fontana, Calder, Dine colti all’opera per sottolineare le rispettive personalità.

Sono importanti testimonianze che, ponendo al vertice la persona che interagiva con l’oggetto in corso di realizzazione, travalicano il mero valore storico-conoscitivo, perché «con il mio modo di fotografare intendo dare un’idea del personaggio in rapporto al risultato finale del suo lavoro, cioè capire quale dei suoi modi e atteggiamenti è stato decisivo al riguardo».

Vi appare palpabile la tensione di Mulas nel continuum del suo operare, dalla preventiva progettazione alla performance della ripresa, dalla stampa in camera oscura al discorso critico.

Al termine Le Verifiche 1971-’72, un abbecedario non tecnico di riflessioni concettuali, incisive e acute, sugli elementi costitutivi del linguaggio e del procedimento fotografico: ne aveva previste 14 ma, nella fase conclusiva della sua attività e della sua esistenza, gli era mancato il tempo per effettuare la decima e individuare la foto dell’undicesima.

Una sorta di autoritratto indiretto fatto di appassionate meditazioni testo-immagine con cui l’Autore intendeva oltrepassare le comuni opinioni correnti, al fine di valorizzare l’elaborazione mentale che sta a monte dello scatto ed elevare il mestiere del fotografo trasformatosi in agente di una «produzione visiva massificata e industrializzata».

Con richiami ai filosofi Benjamin e Merleau-Ponty, aveva analizzato distintamente le singole operazioni che, sul campo e in laboratorio, attuava ormai automaticamente per esperienza acquisita. Fra i temi trattati, l’uso della fotografia, l’ingrandimento, la didascalia e il ritocco.

Perché dopo mezzo secolo lèggere/rileggere La Fotografia?

Almeno per tre buoni motivi, a partire dal piacere di avventurarsi in un territorio dalle inaspettate diramazioni ricche di angolazioni mai ovvie, proposte senza concetti intricati.

Secondo motivo: accorgersi che le sue foto, connotate da apparente semplicità formale, contengono invece dettagli da lui cercati e voluti in ripresa per consentire poi all’osservatore una più esaustiva appropriazione del messaggio veicolato.

La terza ragione, scoprire la visione che Mulas ha di un fotografia legata all’evoluzione della società: «La fotografia ha cambiato molte volte faccia e sicuramente quella che oggi si pratica comunemente non ha niente a che fare con quella vagheggiata da Niépce» (lo strumento di misura è il confronto pregresso-attualità).

È un punto di forza dei suoi ragionamenti che, nell’epoca della comunicazione di massa, ci consente di rilevare effetti e conseguenze dell’immissione sul mercato della tecnologia digitale e del web, mezzi al tempo imprevedibili che hanno sradicato i modi di pensare e di guardare della fotografia analogica. La celerità ha soppiantato la lentezza, la quantità ha oscurato la selezione.

Una rivoluzione copernicana con capovolgimento di prospettiva delle sue idee, convinto com’era che «essere fotografo vuol dire fornire una testimonianza critica della società nella quale si vive», e che «l’immagine realizzata dall’apparecchio fotografico non è completa se non è riprodotta sulla base delle successive riflessioni dell’autore».

In definitiva, con l’intera sua opera Ugo Mulas si prefiggeva l’obiettivo di coinvolgere i fruitori su questioni di ampia portata, anticipando temi tuttora sorprendentemente pertinenti: «Oggi la fotografia con i suoi derivati, televisione e cinema, è dappertutto, in ogni momento. Gli occhi, questo magico punto di incontro tra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura. Dunque, vediamo sempre più con gli occhi degli altri. Potrebbe essere un vantaggio, ma non è così certo».