Le fate non ballano più come sorelle

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Caterina Percoto, ovvero dello scrittore considerato minore

dI Francesco Carbone

 

«Chel ucellut, con lis alis a pendolon, al clame la gnott cun un chiant cussì melanconic e misteriôs che lis fantatis che lu sintin vignint a chiase di passon, senze sav parcè, ur ven voe di vaî.»

(Caterina Percoto, L’ucelut di Mont Cianine)

(Quell’uccello, con le ali abbassate, chiama la notte con un canto così malinconico e misterioso, che alle ragazze che lo sentono, dal ritorno dal pascolo, viene voglia di piangere, senza sapere perché).

 

Chi è Caterina Percoto? Una scrittrice minore? Esistono? E sono riconoscibili? La risposta più bella potrebbe essere quella che troviamo nell’autobiografia Il corsivo è mio di Nina Berberova (Adelphi 1989), quando racconta del momento in cui legge Vladimir Nabokov: «da quel momento la nostra esistenza ebbe un senso. Tutta la mia generazione fu assolta». Dunque, esisterebbe una folla di scrittori minori e minimi, la cui opera sarebbe qualcosa da assolvere, perché non scrivere capolavori non sarebbe errato considerarlo una colpa. Questo popolo, che non è detto sia più infelice del circolo ristretto degli “scrittori grandi”, fa però da humus perché i grandi scrittori si nutrano e diventino sé stessi. Non è poco. Montale diceva che non poteva nascere un grande poeta in Bulgaria, intendendo – immaginiamo – per Bulgaria un ambiente artisticamente sterile: un deserto che non fa fiorire ginestre. Minori e maggiori condividono un mondo, lo abitano e lo plasmano. Tutti assieme scrivono le pagine di quell’unico libro sconfinato – direbbe Eliot – che chiamiamo letteratura.

La categoria degli scrittori minori resta comunque non poco problematica: persino con suoi non trascurabili privilegi. Goethe confidava al fido Eckermann che i capolavori sono opere diventate ormai ingiudicabili: sarebbe questo un destino invidiabile? Il povero Dante inumato nel cimitero dei padri della patria è un esempio recente. I capolavori sarebbero quei libri di cui tutto è già stato detto: dunque, che bisogno avrebbero di noi? E infatti leggiamo nel Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert alla voce ‘classici’ che «si suppone che tutti li conoscano». Che riposino in pace. Giorgio Manganelli per antidoto suggeriva di leggere i cosiddetti maggiori appunto come minori, riportandoli a una lettura intima, umorale e senza regole. Pensate che libidine leggere I promessi sposi come se fosse un romanzo imprevisto, bizzarro: come il romanzo di chissà chi… Quanti meravigliosi difetti ci troveremmo.

A credere nella distinzione tra maggiori e minori, resterebbe poi aperta la questione inquietante che, anche se violentemente trasformato in un classico, uno scrittore non si troverebbe al riparo dai capricci del tempo, tanto più da un tempo isterico e accelerato come il nostro. E poi chi decide? Carducci è ancora un classico? Stendhal, che sappiamo amava scherzare, diceva che il successo artistico non è che un biglietto della lotteria. Magari lo è anche aver raggiunto un posto nell’Olimpo della letteratura. Come tutte le soluzioni, affidarsi a un Canone lascia aperta una selva di problemi. Su questo andrebbe tenuto sempre presente Il Parini, ovvero della gloria di quel guastafeste sistematico che resta sempre, per nostra fortuna, Leopardi.

 

Tutto questo per dire che il valore letterario dell’opera di Caterina Percoto è qualcosa che si terrà sullo sfondo, anche se la capacità della sua opera di attrarre attorno al suo centro la cultura del suo tempo e del nostro appare quella di un piccolo pianeta che fa le sue piccole orbite alla periferia di una grande costellazione. La costellazione è quella della letteratura italiana tra il 1837 e il 1887. In quel mezzo secolo escono l’edizione finale dei Promessi sposi (1840) le Confessioni di un italiano di Nievo (1867), buona parte delle raccolte di Carducci, Giovanni Verga fino ai Malavoglia (1881) e Il marito di Elena (1882), e naturalmente Le avventure di Pinocchio (1883) che però nessuno prende sul serio.

 

Le fate non ballano più come sorelle è il saggio in cui Edda Fonda ci racconta, sempre nel quadro della storia culturale e politica dell’Italia di quel tempo, la storia di Caterina Percoto: dall’esordio, appunto nel 1837 con una lettera alla Favilla di Trieste per protestare contro una cattiva traduzione della Messiade dell’amato Klopstock, alla morte mezzo secolo dopo. Riassumiamo: dalla Favilla chiesero alla «gentile signorina del vicino Friuli» di non mandare «scrupolosi documentati saggi su autori classici», che pure pubblicavano, ma di aprire romanticamente al pubblico «i segreti dell’animo»: sarebbero andati benissimo già quei racconti che scriveva per leggerli solo alla madre.

Ci dice Edda Fonda che così «finalmente la giovane libera il suo cuore». Cuore è una parola che merita i peggiori sospetti. Esclusi Cuore di tenebra e Cuore di cane, esistono romanzi non indigeribili che abbiano la parola cuore nel titolo? – La parola cuore torna più volte nel saggio; e sempre la Fonda ci avverte che questa ispirazione così sentimentale portava la Percoto a «piegare la realtà ai suoi desideri», che sono pii, umanitari e quindi condivisibilissimi. Proprio grazie a questi ottiene i primi successi: per la sua capacità, scrive la Fonda, «di descrivere il “vero” nobilitato dalle esigenze del “bene”». Il pubblico questo amava, e non sarebbe la prima volta che un autore ha successo per i suoi difetti molto più che per i suoi pregi.

Sentimentale e cattolica, nella prosa della Percoto s’incontrano i sospirosi puntini di sospensione («volano le falangi dell’Austria a difendere la preda…»), gli Oh esclamativi («Oh l’annunzio di codesta pace crudele, che divise quelli che si amavano!… Addio Milano! Addio fratello!»), le O melodrammatiche («O re dei fiumi! O Po maestoso…»); perfino la lacrimevole elegia che della luna le fa dire, facendo eco a un modello che sarà facile riconoscere, «Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar».

Si sente qui il problema ineludibile della lingua, di cui la Percoto pure si mostra cosciente: «io che non son nata nella felice Toscana, al voler dire quello che sentivo con una parola che fosse viva, non avevo altro precettore che il mio nativo dialetto». E infatti le cose che scrive in friulano appaiono ben diverse: «Quasi tal niez del canâl di S. Pieri, parsore la vile di Cercivint, si viôt une montagne verde che ‘i disìn la Tencie» («Quasi nel mezzo del canale di S. Pietro, sopra il villaggio di Cercivint, si erge una montagna verde chiamata la Tenca», Lis strìis de Germanie). Il friulano si rivela vergine come un’Africa tutta da esplorare, senza la colonizzazione di frasi fatte e di manierismi. È l’inizio di un’avventura squisitamente letteraria, di una situazione faticosa e stupenda. Scrive Caterina Percoto: «devo inventare la grafia, trovare il modo di rendere efficaci i suoni, scrivere frasi brevi, il periodare lungo il dialetto non l’accetta».

Quanti lettori avrà avuto, a metà dell’Ottocento, la Percoto quando scrive nella lingua di San Lorenzo di Soneschiano? Sono dunque le novelle in italiano che le danno la fama. La lingua è quella di una scrittrice che, come tutti gli altri, conosce l’italiano dai libri, che ama Manzoni, che raccoglie in un suo quaderno espressioni toscane che trova nel Giusti, e che prega gli amici che la leggono di farle presenti tutti i suoi «spropositi». Interessante che, in un tempo in cui «l’Italia una lingua ancora non l’ha», la Percoto non si sia lasciata paralizzare dal mito manzoniano di una lingua ideale che coincidesse con la «pretta favella di Firenze» (G. I. Ascoli, Proemio all’Archivio Glottologico Italiano, 1872).

Grazie alla mediazione di Niccolò Tommaseo, che l’aveva fatta conoscere al Gabinetto Vieusseux di Firenze, nel 1858 uscirono per Le Monnier – il miglior editore – i Racconti. Vennero stampate duemila copie. Nel 1865 Giovanni Verga inviò una copia di Storia di una capinera alla sua «maestra». Un secolo dopo, direttore editoriale Cesare Pavese, l’Einaudi ripropose alcune novelle: Lis cidulis, Un episodio dell’anno della fame, La coltrice nuziale.

 

Edda Fonda

Le fate non ballano

più come sorelle

Storia di Caterina Percoto

L’orto della cultura

Pasian di Prato (UD)  2020

  1. 172, euro 15,00