Le guide sentimentali come genere letterario

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Il costante successo di libri di tale genere in una città che riflette, a volte anche troppo, su se stessa

di Walter Chiereghin

 

Sta assumendo forma e dimensioni di un autentico genere letterario la narrazione di Trieste attraverso la scrittura. Non già di singoli brani che punteggiano opere in versi o in prosa, ma di monografie dedicate alla città, alla sua storia, a riflessioni degli autori su singoli aspetti della realtà locale. Non si tratta di guide ad uso di turisti e visitatori frettolosi che riassumano in poche pagine i caratteri distintivi del territorio, per elencarne e descrivere schematicamente monumenti, architetture, itinerari tra le vie o le sale dei musei. Queste trovano i loro antecedenti ottocenteschi per lo più redatti da “foresti”, gente che passava da queste parti per affrontare un “tour” sulle coste di Istria e Dalmazia, come fu per il poligrafo francese Joseph Lavallée (1747-1816), che pubblicò a Parigi nel 1802 il suo Voyage pittoresque et historique de l’Istrie et de la Dalmatie, redatto seguendo l’itinerario dell’artista e archeologo Louis-François Cassas (1756- 1827). E poi, più mirato, Triest un seine Umgebungen (Trieste e i suoi dintorni) pubblicato a Lipsia nel 1807 da Ignaz Kollmann. Di poco successivo, essendo pubblicato a Venezia nel 1820, è il libretto di Matteo di Bevilacqua, musicista siciliano: Descrizione della fedelissima imperiale regia città e porto franco di Trieste. Tutte opere ristampate in traduzione italiana nell’ultimo scorcio del Novecento e anche nei primi decenni di questo nostro secolo, a saziare la curiosità di lettori per lo più triestini. Ma siamo già fuori tema. Si tratta di testi che forniscono un’informazione di massima a viaggiatori, come sono gli stessi autori, estranei alla cultura e alla frequentazione costante o almeno assidua delle vie, delle osterie, dei teatri, delle biblioteche della città che propongono ai lettori.

Per arrivare a una narrazione che non sia mero oggetto di consumo turistico bisognerà oltrepassare la metà del secolo successivo, quando, nel 1968, compare la Guida sentimentale di Trieste, di Bruno Coceani e Cesare Pagnini, rispettivamente prefetto e podestà nella Trieste dell’Adriatisches Künstenland, nominati entrambi dal commissario del Terzo Reich Friedrich Reider. Assolti dall’accusa di collaborazionismo, nel dopoguerra i due si dedicarono alla ricerca storica, ma i presupposti culturali di entrambi gravano pesantemente sulla loro Guida, rigorosamente improntata ai valori irredentistici e a malcelate persistenze nazionalistiche, tali da ridurre la loro vulgata sulla città a un prolisso rincorrersi di luoghi comuni di gusto molto dannunziano (l’abruzzese è citato assai più frequentemente di Saba), con commosso compiacimento di reduci e vagamente funerario, disconoscendo ogni valore, tra l’altro, a quanto riveli il carattere multietnico e plurale dell’oggetto del volumetto.

Vent’anni dopo, presso l’editore Boni di Bologna, venne dato alle stampe un volume postumo di Silvio Benco, Trieste tra ’800 e ’900, con prefazione di Giani Stuparich, una raccolta di articoli, non pensata certo dall’autore come una guida, ma importante per conoscere la storia recente, la letteratura, le arti, alcuni luoghi e figure rilevanti cui l’autorevolezza dell’autore conferisce particolare pregnanza.

Nel 1995, Fulvio Tomizza pubblica presso Bompiani Alle spalle di Trieste, anch’esso una raccolta di articoli e brevi saggi concernenti la città di residenza dell’autore, alla quale tuttavia egli non seppe mai del tutto adattarsi, tanto forti erano in lui le radici che lo legavano all’Istria, a una dimensione rurale che mal si accordava con il tessuto urbano di una città che aveva prosperato sul mare, sui commerci e, seppure in declino, continuava a coltivare un’immagine di sé anelante alla metropoli che non sarebbe comunque divenuta. Come osserva Gianfranco Franchi, « Una città che, nonostante fosse stata la sua da oltre trent’anni, continuava a sentire di “non possedere in pieno”. Un’amante bellissima e sfuggente, che Tomizza non è mai riuscito a capire del tutto, e a dominare».

Se c’è una guida che più di altre può fregiarsi dell’aggettivo “sentimentale” cui alludevamo nel titolo è opera di Jan Morris, Trieste o del nessun luogo, pubblicata dal Saggiatore nel 2003 e più volte ristampato. Scritto da una persona che visitò Trieste per la prima volta nel maggio del 1945, vestendo l’uniforme dei Lancieri di S. M. Britannica, che poi cambiò sesso nel 1972, mi sembra che come pochi sia riuscita a descriversi attraverso la sua relazione con questo “non luogo”. Mi offre lei stessa un’interpretazione autentica di tale affermazione nelle ultime pagine del suo libro: « Jorge Luis Borges aveva colto nel segno raccontando di un artista che si ripropone di ritrarre il mondo salvo accorgersi a un certo punto che quel “paziente labirinto di linee tracciava l’immagine del suo volto”: è quello che è accaduto a me, che ho passato la vita a descrivere il pianeta e ora osservo Trieste come potrei guardare in uno specchio».

Nel 2006 è di nuovo il turno di un triestino, emigrato tuttavia dapprima a Pordenone, poi a Roma: Mauro Covacich ha scritto e pubblicato con Laterza Trieste sottosopra, resoconto, come recita il sottotitolo, di Quindici passeggiate nella città del vento, la prima ambientata a Miramare, l’ultima al cimitero di Sant’Anna. Un’occasione per cogliere le contraddizioni assai più che descrivere le statiche inesistenti connotazioni di una città, o meglio, come osserva lo stesso Covacich rendendosi consapevoli del fatto che «l’identità autentica di Trieste passa attraverso la sua natura contraddittoria».

Nel 2011 è la volta del giornalista e scrittore Pietro Spirito, triestino dall’età di tre anni, che pubblica, in un bizzarro formato pentagonale Trieste è un’altra, 90 pagine che propongono un itinerario poco convenzionale, affrontato in sella a una sua ormai mitica Kawasaki 500. Il giro inizia dal Porto Vecchio e si conclude anche in questo caso al cimitero di Sant’Anna; d’altronde, dice Spirito citando Luigi Nacci che, con una punta di sarcasmo, afferma essere quello il posto più vivo di Trieste. Tra questi due poli dell’itinerario, teso «a ricostruire la geografia con gli strumenti della storia, se così si può dire: evocando cioè quando storicamente stratificato nei luoghi descritti, a comporre un mosaico della memoria dove le tessere sembrano essere state turbate da una follia centrifuga, che la narrazione di Spirito cerca, per come può, di ricomporre in un disegno se non razionale almeno plausibile, cui si sforza di dare leggibilità» (mi perdonerete il narcisismo di un’autocitazione).

Con il titolo auto esplicativo di Guida sentimentale di Trieste, ma di contenuti di ben altro interesse e valore rispetto all’omonimo volume di Coceani e Pagnini, Vita Activa, la giovane e vivace casa editrice gestita da sole donne, ha proposto nel ’14 un volume collettaneo curato da Gabriella Musetti recante i contributi di altre sedici autrici. Trecento pagine, un utilissimo strumento per esplorare la città non solo vagando nel suo centro storico e negli ambiti più rilevanti dal punto di vista monumentale o paesaggistico, ma fermando l’attenzione del lettore su periferie, locali defilati, pasticcerie golose, figure e storie di uomini, autobus, biblioteche e pinguini che, assieme, forniscono un’immagine straordinariamente vivida di una città assai poco propensa ad arrendersi, nonostante tutto.

Rimarrebbe ancora da dire del più recente libro di questo curioso genere letterario, il fortunato Trieste selvatica di Luigi Nacci, edito qualche settimana fa da Laterza, del quale abbiamo dato conto con una recensione di Martina Vocci nel Ponte rosso di giugno, ma che merita ancora due parole in questo contesto. Quello che non vi avevamo detto di questo libro è che, oltre ad allargarsi su un territorio ben più ampio della città, in accordo con la vocazione di viandante dell’autore, ci perviene da una persona che, fin dagli anni universitari, si è esercitata criticamente su quasi tutto quanto è stato scritto a Trieste e su Trieste e che in questo nuovo suo volume riesce a fondere in un’unica assorbente narrazione la città di carta e quella “selvatica”, grazie alle sue doti di letterato e di camminatore, in entrambi i casi in grado di indicare con sicurezza a chi lo segue il cammino che è opportuno percorrere.