Le nostre storie inventate, fatte di realtà

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Traduzione italiana di un romanzo di Drago Jančar

di Luca Zorzenon

 

La citazione è da H.C. Andersen: sta in epigrafe a un romanzo di grande intensità narrativa, Stanotte l’ho vista, di Drago Jančar (ed originale, To no sem jo videl, Mondrijan, Lubiana, 2010), tradotto in lingua italiana da Veronika Brecelj per le Edizioni Comunicarte, Trieste, 2015. Intensità narrativa ad iniziare dalla struttura: cinque monologhi, di cinque personaggi che si succedono dandosi il cambio nel racconto di una stessa vicenda, volta a volta aumentando la distanza dai fatti ed entro un arco di tempo che scorre da un terribile inverno di guerra del 1944 ai giorni nostri. È il tempo, in questo romanzo, quasi un sesto personaggio. Fondamentale per narrare una storia, perché una storia si possa dare e perché la storia la si possa fare, cioè, in fondo, scrivere. È dunque nei tempi diversi di diverse scritture che la storia matura se stessa, ed aspira così alla ricerca di un senso dei fatti, lo indaga mai contentandosene, mai appagandosi in presunte certezze raggiunte, quando invece il racconto vuol ricominciare di nuovo, la prospettiva muta, il dettaglio si sposta in una luce inedita, un frammento di memoria si aggiunge al cumulo dei precedenti, e ciò che pare chiaro ridiventa opaco per tendere poi ad una chiarezza ancora una volta diversa. Forma e struttura del romanzo di Jančar questo ci dicono: che storia si dà nei tempi del racconto dentro un’idea polifonica e multiprospettica del narrare.

Cinque monologhi, si diceva, che ogni volta iniziano il racconto di una stessa drammatica vicenda; che la distendono nel tempo, la riscrivono, la indagano lungo almeno sessant’anni. E chi davvero fossero Leo Zarnik e sua moglie Veronika ammazzati dai partigiani dell’Esercito di Liberazione jugoslavo nel gennaio del ’44 in Slovenia sta nelle mani di un narratore ancora diverso, di un lettore che aggiunge ai cinque un monologo suo che dura l’intera lettura. L’unico, il lettore, a poter in se stesso interloquire con i narratori. I cinque narratori, in verità, partecipi ognuno della sua personale esperienza dei fatti, accennano l’uno all’altro gettandosi reciprocamente una diversa luce sulle loro personalità, senza tuttavia mai incontrarsi davvero, in un conflitto di prospettive che potrebbe trasformarsi in dialogo e mai riesce a farlo. Ognuno di essi solamente nella sua solitudine interiore può tentare di rapportarsi ai fatti e agli altri narratori. E dunque chi erano Leo e Veronika? Collaborazionisti dei tedeschi o sostenitori dei partigiani? Doppiogiochisti? Leo un abile e talora cinico ricco industriale che tenta di salvare se stesso e la sua fortuna dalle tempeste della storia oppure il marito fin troppo amoroso e premuroso nei confronti di una moglie eccentrica quanto fragile? E Veronika, una donna tanto infantilmente borghese da potersi permettere un’idea irresponsabile della vita e della libertà oppure la vittima espiatoria della storia quando essa raggiunge la cruda necessità della violenza, anche la più efferata, e quando il tempo che permette ai racconti del poi di distendersi viene invece tragicamente a mancare nell’immediatezza brutale dei fatti, quando le parole sono tutte insufficienti, le spiegazioni e i dialoghi impossibili e solo l’agire conta?

Non solo successione dei tempi ma anche dislocazione dei luoghi. Stevan Radovanovic, comandante di una brigata di cavalleria del regio esercito del Regno di Jugoslavia, fedele al re Pietro e amante di Veronika, poi abbandonato, scrive di lei da un campo di prigionia inglese a Palmanova, travolto e stravolto dagli eventi quando la guerra è a finire nella primavera del ’45. La vecchia madre che, oramai quasi folle, non cessa di attendere il ritorno della figlia, racconta da un solitario appartamento di Lubiana dalla cui finestra assiste al corteo trionfale dell’esercito di liberazione. L’ufficiale medico tedesco, ambiguo ospite del ricco maniero degli Zarnik, narra irosamente tormentato da ricordi compromettenti nella tranquilla Svizzera in cui nasconde a sé il suo passato. La domestica di Veronika e di sua madre, nella sua ingenuità popolare, racconta a uno stuolo di figli e nipoti quella brutta storia di paura e di dolore di quando lei era giovane. Infine, quel ragazzo contadino, Jeranek, lavorante al maniero, timido e rispettoso che matura in silenzio una coscienza di classe antifascista e abbraccia la causa partigiana mettendo in moto (quanto poi involontariamente?) l’eccidio: narra da vecchio, ormai ai giorni nostri, quando tra casa, orto e osteria, accompagna al camposanto i compagni di un tempo nel dubbio di aver con loro lottato invano e non riesce a spiegare al figlio che ricordare la sua vita partigiana gli «fa bene e fa male, allo stesso tempo».

Per tutti i narratori l’affascinante, eccentrica, borghese, ambigua, fragile e provocatoria Veronika ritorna ai loro occhi come immagine di un fantasma, ne turba il giorno e le notti, invocata e respinta, figura sospesa tra realtà e invenzione, plurima e contraddittoria allegoria di un doloroso ed impossibile amore per tutti. Immagine di scellerata libertà naturale indifferente alle grandi scelte della storia, promessa per tutti di una vita migliore, di purezza originaria e insieme di compromissione inquietante, gentildonna perturbante il perbenismo borghese o ricca «puttana tedesca», Veronika, che sopporta pressoché in silenzio la violenza storica quasi inscritta nel suo destino, è a sua volta fonte per tutti e cinque i personaggi che la raccontano di dolore e inquietante rivisitazione del passato. Per tutti Veronika si tramuta nel fantasma che oscura e illumina la vita ad un tempo.

L’ultimo dei narratori, Jeranek si assume con più coraggio di tutti il peso e la responsabilità che il vivere dentro la Storia impone: «Non avevamo prove sufficienti, è vero. Ma bisogna capire, si era giovani, folli per gli attacchi incessanti, ci braccavano come bestie, anche questo disse il compagno Janko, e noi, talvolta, dovevamo rendere i colpi, senza pietà. E aveva ragione. Mio figlio Janko, che porta il nome del mio amico, capirà quando un giorno gli racconterò. Che sapevamo e dovevamo rendere i colpi. Non occorre che sappia ciò che è successo ai due signori del castello nel capanno da caccia. Basta che sappia quello che scrivono i libri, lì sullo scaffale: sono stati giustiziati. E che sappia che si viveva sempre fra la vita e la morte, sempre in un’ora in cui non si sa, se sia notte o giorno. Quando da una parte pende un quarto di luna e dall’altra sorge il sole.»

Riuscire un giorno a spiegare al figlio, per Jeranek ormai vecchio è la speranza sottile che la storia non costringa più Veronika ad apparire le notti come un fantasma: in fondo, a dar riposo, finalmente, anche a lei.

Drago Jančar col romanzo Stanotte l’ho vista ha vinto in Francia nel 2014 il «Prix de Meilleur livre étranger» (Premio per il miglior libro straniero). La traduzione in italiano di Veronika Brecelj, nell’impossibilità di chi scrive del confronto sull’originale, appare in sé stessa opera di sensibile, accurata, ponderata misura e qualità stilistico-letteraria.

 

 

Copertina:

 

Drago Jančar

Stanotte l’ho vista

trad. it. Veronika Brecelj

Comunicarte, Trieste 2015

  1. 216, euro 18,00