Le parole e le città

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Concedere il dovuto credito alla parola dei poeti, che spesso, ma invano, hanno lamentato gli scempi compiuti dall’uomo sull’ambiente

di Maurizio Casagrande

 

Jo? Jo o voi discôlç viers inniò”

(Io? Io vado scalzo verso nessun luogo

Pierluigi Cappello, Inniò, 2004).

 

Dalle relazioni di viaggio di Marco Polo alle città invisibili di Calvino,  passando per la leggendaria città di Kitež di Valeria Rossella posta sulle rive del lago Svetlojar, resasi invisibile per sfuggire all’invasione dei Tartari salvo riapparire capovolta nell’acqua solo in immagine, o ancora arrivando alla mitica Atlantide di Auden, fino alla Praga “magica” di Ripellino o alla Napoli “porosa” di Benjamin recentemente riproposta dalle edizioni Dante & Descartes, senza tacere della Trieste di Svevo, di Saba, di Giotti, di Magris, di Tomizza e di altri, è sempre stato molto stretto il nesso fra il tema della città e l’ispirazione di scrittori e poeti. E tale rimane anche oggi più che mai in tempi di pandemia globale quando le città vengono assumendo un aspetto irreale e quasi spettrale che sembra negare alla radice l’idea stessa di socialità condivisa su cui si regge l’istituto di ogni ambiente urbano: Firenze, Roma, Venezia completamente deserte non si erano mai viste prima e ora anche Parigi o Berlino sembrano avviate al medesimo destino di isolamento e reclusione forzata dei rispettivi abitanti.

Che cosa resta, oggi, delle laudes civitatum del Duecento? Che ne è stato del motto altomedievale «l’aria della città rende liberi»? La prospettiva sembra essersi radicalmente invertita e le nostre città, sempre più affollate e a tratti invivibili, più che attirare e proteggere fanno paura, inducendo alla fuga e all’esodo chi vi abbia eletto dimora, soprattutto quando diventano facile bersaglio per stragi indiscriminate: un tempo ambìto approdo di sicurezza e rifugio agli occhi delle popolazioni del contado sottoposte a scorrerie continue nel tardo impero, per trasformarsi in luoghi di abbandono e degrado nei primi secoli del Medioevo, fino al colpo di grazia delle epidemie del Trecento.

Potrebbe trattarsi di una crisi passeggera, come era stato nell’Europa del primo Ottocento sconvolta dall’urbanizzazione massiccia indotta dalla rivoluzione industriale, oppure anche in questo settore, come più in generale per i delicati equilibri dell’ambiente, i nodi stanno venendo al pettine e certe scelte dissennate del passato – e di un passato anche recente, se si pensa alle conurbazioni sorte dal nulla in territorio cinese – finiscono col rivelare tutte le proprie incongruenze sull’onda lunga della pandemia e si rende pertanto impellente la riconsiderazione di ogni progetto urbanistico di espansione e cementificazione selvaggia (l’ipotesi di una megalopoli veneta, ad esempio, accarezzata fino a poco tempo fa da privati e pubblici amministratori) per tornare ad una visione più sobria ed umana dell’idea stessa di città, un’idea che presuppone una riconciliazione tra uomo e ambiente, tra natura e cultura, tra civiltà fluviali e pratiche indiscriminate di interramento dei fiumi come era prassi abituale nel primo Novecento a Padova, Rovigo o Genova, con le catastrofiche conseguenze che ne sono derivate recentemente. E i primi a comprenderlo erano stati, nel corso del secolo trascorso, Biagio Marin e Andrea Zanzotto con la loro ostinata reclusione nelle natie Grado o Pieve di Soligo, Goffredo Parise, che eleggeva a propria ultima dimora la casetta delle fate lungo il Piave a Salgareda e Bino Rebellato, sempre fedele alla sua Cittadella; più recentemente Ermanno Olmi, ritiratosi sull’Altopiano di Asiago o Rita Gusso, poetessa molto legata alla sua Caorle per quanto trasferitasi stabilmente in Friuli.

In tale irrinunciabile riformulazione dell’idea di città gioverebbe più che mai tener presente il mito classico di Orfeo civilizzatore ed edificatore di civiltà, concedendo il dovuto credito in una materia così delicata alla parola dei poeti che spesso, ma invano, hanno lamentato gli scempi compiuti dall’uomo sull’ambiente e basterebbe pensare a certe liriche in dialetto di Andrea Zanzotto, Remigio Bertolino o Amedeo Giacomini, come al legame strettissimo tra l’uomo e le acque che sostanzia la poetica di tanti autori, come ad esempio la Rossella:

 

Apriti, porta dell’insonnia. Città / che appari rovesciata sul fondo del lago / non darmi pace nel tempo della veglia, / la tua luce latente mi sia guida. / Candele si accendono sui tigli / fra tetti e strade maculati. Vedo / aironi ed anatre svolare / da campanili e finestre, e mani frastagliate / offrire pasticcini su una tavola / stile Rinascimento. Dammi appuntamento / con creature che guizzano / dentro il tuo specchio sfigurante […].

 

(Valeria Rossella, Kitež, da La città di Kitež, Nino Aragno editore, 2012).

 

A sostenere questa visione della città, al di là delle suggestioni oniriche, è la connotazione fortissima sull’ambiente naturale e sulla luce, una luce che trae alimento dalla stessa natura e che dovrebbe ispirare ogni illuminata distribuzione degli spazi nell’ambito urbano, piuttosto che venire negata a colpi di falce.

Da una prospettiva lievemente diversa ci arriva lo sguardo sulla realtà di Auden, nella felice traduzione curatane da Mauro Sambi:

 

[…] Mettiamo che inɦne tu approdi / non lontano da Atlantide, e cominci / la terribile marcia all’interno / per squallidi boschi e per tundre / gelate, dove tutti presto si perdono; / se allora, desolato, ti fermassi, / abbandono dovunque, / pietra e neve, aria e silenzio, / ricorda i grandi trapassati / e onora il destino che sei, / in viaggio e tormentato, / dialettico e bizzarro […].

 

(Mauro Sambi, Atlantide, in Una scoperta del pensiero e altre fedeltà, Ronzani, Vicenza 2018, pp. 45-46).

 

Qui il poeta, e il traduttore con lui che è di radice istriana, mettono a fuoco quell’aspirazione a una patria negata che è di tutti gli esiliati e la città agognata si converte nell’anelito perpetuo ad un ubi consistam che non s’incarna mai in alcun luogo, sulla scorta della lezione dei grandi mitteleuropei, come pure di Kavafis, e con un fermo ancoramento alla familiarità con i propri lari:

 

Dicesti: «Andrò in un’altra terra, su un altro mare. / Ci sarà una città meglio di questa. / Ogni mio sforzo è una condanna scritta; / e il mio cuore è sepolto come un morto. / In questo marasma quanto durerà la mente? […]» // Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. / Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai. / Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non sperare – / non c’è nave per te, non c’è altra via. / Come hai distrutto la tua vita qui / in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta.

 

(Konstantinos Kavafis, Le poesie, Einaudi 2015, nella traduzione di Nicola Crocetti).

 

Kavafis viene così a suggerirci l’esercizio salutare della prudenza, forte di quella saggezza che nasce dall’esperienza di vita: è insensato inseguire il miraggio della città ideale, perché noi non siamo che le nostre radici e il loro ricordo ci accompagnerà per sempre. Più opportuno prenderne atto per realizzare pienamente se stessi nella propria terra e nel proprio mare, lontani da ogni velleità prometeica, come dallo spirito mai pago del principe di Itaca.

Con la postilla che la vera radice di ogni identità, a prescindere dalla città in cui ci troviamo a vivere, è determinata prima di tutto dal radicamento al territorio in senso lato e, in un senso più ristretto, allo spazio della nostra casa, dove per casa è da intendersi non solo l’ambiente che ci siamo costruiti per vivere ma anche quello spazio mentale che soltanto la poesia e la letteratura sono in grado di definire per davvero.