Le ultime volte di Calasso

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La comparsa dell’illustre editore è accompagnata dall’uscita, il giorno prima, di due suoi volumi

di Francesco Carbone

 

Roberto Calasso è morto il 28 luglio di quest’anno. Hanno scritto ritualmente i giornali: dopo una lunga – e quindi consapevole – malattia. In questo scorcio d’anno, nella Piccola Biblioteca Adelphi sono usciti i suoi ultimi tre preziosi libretti: Allucinazioni americane – su La donna che visse due volte, «il più inestricabile tra i film di Hitchcock» –, Bobi, su cosa ha significato per lui e per Adelphi Roberto Bazlen, e Memè Scianca, sulla sua infanzia a Firenze. Gli ultimi due sono usciti assieme, il giorno prima della morte.

Leggendoli, qualcosa di poco definibile ma allo stesso tempo di fortissimo, fa pensare alla pratica della discrezione nei Ricordi di Francesco Guicciardini (1530), come alla sprezzatura di Baldassar Castiglione, che è l’arte di «fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione […]; che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (Libro del cortegiano, 1528): discrezione e sprezzatura sono due aspetti di tutta la labirintica opera di Calasso.

Come in Guicciardini, Calasso ha scritto – forse più di sempre – in una forma armoniosa e discontinua allo stesso tempo: per schegge, perché «ogni frammento che affiora potrebbe affiorare per un’ultima volta, prima di essere abbandonato a una totale inesistenza» (Memè Scianca). Il libro – bellissimo – che dichiaratamente sta dietro Memè Scianca è Ai miei figli di Pavel A. Florenskij (Mondadori, 2003). Di Florenskij Calasso aveva pubblicato nella piccola Adelphi il meraviglioso Le porte regali (1997) e prima Lo spazio e il tempo nell’arte (1995).

Chi segue almeno un po’ queste cose, sa che i libri di Calasso sono stati pubblicati da Adelphi alternando – con l’eccezione della sua tesi di laurea su I geroglifici di Sir Thomas Browne – la Collana Biblioteca con la Piccola Biblioteca Adelphi. Viene da supporre che nella collana grande Calasso abbia raccolto, con il suo unico romanzo I quarantanove gradini (1991), i volumi della sua opera unica (undici volumi): «libro impossibile» (così Antonio Gnoli, nella recensione del suo volume più famoso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 2004), libro-mondo senza termini di paragone nella letteratura italiana non solo contemporanea, a suo modo – come proprio Bobi Bazlen avrebbe voluto tutte le pubblicazioni di Adelphi – «libro unico» che, praticando un vertiginoso pensiero analogico (vedi Elena Sbrojavacca Letteratura assoluta, Feltrinelli 2021), irretisce Occidente e Oriente, Kafka e i Veda, Talleyrand e la Bibbia, l’Innominabile attuale (2017) e Tiepolo.

Nella Piccola Biblioteca Adelphi invece si trovano i testi più essoterici, più amichevoli e di alta elegante divulgazione: in particolare sul mestiere dell’editore e sul cinema. Su Memè Scianca e Bobi proviamo a dire qualcosa: tenendo presente un principio che Calasso regala nel libro su Vertigo: «è stato Dumézil a raccomandare una volta il piacere di leggere l’Iliade di seguito “senza porsi domande”, senza pensare a null’altro che alla storia raccontata, senza commenti, senza dizionari, dunque senza significati ulteriori. Quel piacere è la vera ordalia dell’arte. Ciò che regge a quella prova è salvo» (Allucinazioni americane): chissà se sarà così. Intanto, ancora una volta ci accorgiamo di quante cose si pensano quando non veniamo pedagogicamente costretti a pensarle.

 

Memè Scianca racconta come un bambino capace di grandi attenzioni, in una famiglia di intellettuali antifascisti, ha vissuto la guerra. Il padre di Calasso, Francesco, illustre giurista, fu con Renato Biasutti – geografo ed etnografo – e con Ranuccio Bianchi Bandinelli – tra i massimi archeologi e storici dell’arte antica – incarcerato come responsabile dell’omicidio di Giovanni Gentile, ucciso a Firenze il 15 marzo del 1944. Roberto Calasso dona squarci di un ambiente colto, discreto: in un senso alto e raro in Italia, borghese. Si rifanno vive figure ora sbiadite eppure essenziali, come certe apparizioni laterali nelle Memorie di Saint-Simon: Giorgio Pasquali, Arnaldo Momigliano, il nonno materno Ernesto Codignola che fu l’anima della Nuova Italia: «nei pranzi a casa dei nonni, spesso con ospiti di cui a mala pena conoscevo il nome, sentivo spesso parlare di giovani studiosi “di valore”. E avevo l’impressione che ci fosse una mappa seminascosta di questi esseri di valore, sparsi per l’Italia in varie sedi universitarie». La clandestinità, la vita da sfollati, il timore per l’arresto del padre, sono detti semplicemente. Passano leggere come solo i fantasmi familiari sanno fare, le figure della madre, del contadino capofamiglia, del pazzo, del gatto di pezza… C’è il racconto della prima lettura notturna di Cime tempestose, dei romanzi illustrati da Robida, la prima poesia imparata a memoria di Baudelaire (L’Homme et la mer); c’è la scoperta della musica, con direttori oggi leggendari (Scherchen, Mitropoulos, Fricasy). Come Giorgio Manganelli – che di Adelphi è diventato uno degli scrittori italiani essenziali, che fu partigiano e rischiò la fucilazione – l’antifascismo e la Resistenza non sono poi diventati il basamento per il monumento di sé stessi. Mai neppure un’ombra di retorica. La breve storia del Partito d’Azione – il più puro che ci sia mai stato in Italia – è riassunto in poche righe: «durante la guerra si formò in Italia un partito fatto soltanto di intellettuali. Unico in Europa, e, per questa sua natura, destinato a durare poco […]. Gli azionisti erano un ottimo esempio di élite senza base – e poco preoccupato di averla». Dopo tutto questo, Firenze resterà per sempre quella intravista oltre «il polverio delle macerie», con «l’odore di detriti».

Tra questo passato e il resto della vita, c’è «una lastra impenetrabile e trasparente (…). Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi» (Memè Scianca).

 

Bobi è quindi Roma, e il racconto del suo miglior maestro: Bazlen spesso è fatto parlare con le sue stesse parole: «non appunti in vista di pubblicazione, ma note rivolte a se stesso, forse da sviluppare un giorno», o forse, come pensava Kafka, per darsi in pagine scritte per non essere lette. Bazlen appare coltissimo («da ragazzino a Trieste, con la schiena appoggiata ai cuscini, Bazlen aveva letto tutto ciò che di significativo appariva»; «la sua prima lingua era il tedesco, poi l’inglese e il francese»), indefinibile («era inadatto a qualsiasi funzione, se non quella di capire e di essere»), sempre meno avvicinabile («A Roma tutti conoscevano Bazlen, o pretendevano di conoscerlo»), drastico (scriveva con «una certa rapidità insolente, un impulso a passar oltre, senza lasciarsi invischiare»; «diceva spesso “Non suona bene” – e si capiva che non c’era appello»), sottile («il nemico peggiore è il nemico che ha i nostri argomenti»).

Nella sua giovinezza, Trieste era stata «una gabbia malefica, e talvolta “una vita infame”, dove si mescolavano gli incontri decisivi (Svevo) e una famiglia composta da sole donne». Come Lao Tzu, credeva che si nasce morti e si diventa – se ci si riesce – vivi. Qualcosa di simile lo troviamo nell’idea di Jung della vita come progressiva individualizzazione, e una figura fondamentale nella vita di Bazlen fu l’allievo di Jung Ernst Bernhard, «come l’autorità da cui si deve andare». Due libri, più di tutti gli altri sono stati la sua casa mentale: L’abbandono alla Provvidenza divina di Jean-Pierre de Caussade e I Ching.

Bazlen morì a Milano nel 1965. Il primo tradimento fu il necrologio che gli dedicò Eugenio Montale, con il quale il rapporto fu intensissimo ma alla fine ferito. Montale lo raccontò come «l’ultimo e più singolare rappresentante dell’intelligenza triestina dei cosiddetti anni Trenta»: sono parole, commenta Calasso «che avrebbero ripugnato a Bazlen come poche altre, per la goffaggine della formulazione e, ancor più, perché venivano dette di chi aveva passato buona parte della vita ad andar via da Trieste – e ci era anche riuscito».

La presenza di Bazlen nella nostra cultura è cresciuta con il progressivo svilupparsi della casa editrice: «l’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi». Da allora, i «pochi studiosi che lo avrebbero ricostruito, fra molte gaffes e imprecisioni», l’avrebbero fatto «con l’impressione di aver compiuto un dovere culturale», facendolo diventare «tutto ciò che Bazlen più detestava».

Come l’indeterminabile elettrone della fisica quantistica, raccontata in Adelphi dai meravigliosi saggi di Richard Feynman e adesso di Carlo Rovelli, Bazlen si dà non come la parte definita di un qualche canone, ma come una nebulosa vitale. Cosa è stato dunque? Montale, «che aveva pilotato la sua vita sull’autoprotezione e una certa pavidità», si chiedeva se fosse stato un mistico; Bazlen invece aveva fondata la vita «su un irrimediabile non sapere, esposto alle onde in ogni direzione. Era stato il suo modo di diventare vivo». Calasso ha fatto lo stesso. Adelphi, l’anno prossimo avrà sessant’anni, ha già pubblicato più di 7.000 libri.