Lenci Sartorelli e Dora Bassi

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Due mostre importanti, presso i Molini, a due artiste della stessa generazione, quella degli anni Venti

di Giancarlo Pauletto

 

Due mostre importanti dedicai, presso i Molini, a due artiste della stessa generazione, quella degli anni venti: Lenci Sartorelli (1926-2017) e Dora Bassi (1921-2007).

Lenci era friulana di origine, ma divenne una portogruarese purosangue, notissima in città anche perché abitava in Borgo San Giovanni, la cui chiesa – che custodisce, tra l’altro, un pregevole Leandro Bassano sopra l’altar maggiore – aveva più di una volta dipinto.

Ricordavo alcuni suoi quadri visti da ragazzo a quindici, magari sedici anni, sempre ai Molini ovviamente: ne avevo una memoria positiva ma confusa, avrei tanto voluto rivederli assieme a quanto la pittrice aveva realizzato successivamente, ciò che mi era abbastanza noto, anche se non quanto avrei voluto.

Così le chiesi non una mostra di opere recenti, come forse avrebbe desiderato dato che da parecchio non c’erano state sue esposizioni, ma un’antologica, anche se potevo garantirgli solo sedici pagine di catalogo: mi abbandonai ad una mozione degli affetti, insistendo sul fatto che i portogruaresi sarebbero stati certo contenti di rivedere sue opere antiche assieme a quelle degli ultimi tempi.

Lenci si lasciò convincere e così fui più volte a casa sua a maneggiare quadri e carte dipinte, dopo aver superato l’indiavolata cagnara della sua cagnetta nera, che si opponeva ferocemente al mio ingresso e si allontanava solo a sentire le urla della padrona, rinculando lentamente e sempre mirandomi con i suoi occhietti rabbiosi, finché Lenci riusciva a chiuderla dietro una porta, dove si quietava.

Trovai alcuni bei pezzi degli anni cinquanta a casa sua, altri ne recuperammo presso collezionisti, assieme a quelli degli anni più recenti ne uscì una mostra veramente bella, dove la lezione “veneziana” dei Cadorin, dei Guidi, dei Semeghini si sposava felicemente con la sua natura lirica che, attraverso mezzi cromatici volutamente limitati, giungeva ad un equilibrio sospeso, incantato, come per esempio in Tende a Grado, del ’53, o nel limpido Ritratto di ragazzina del ’55, per fare due esempi che sicuramente a Portogruaro, al di là di chi possiede i quadri, qualcuno ancora ricorda.

Poi ebbe anche lei, attorno al ’60, la sua svolta informel, come in quel momento accadeva, d’altra parte, a molti giovani artisti veneti e friulani: ella semplicemente accentuò la libertà del gesto pittorico, mantenendo tuttavia sempre un contatto con la realtà naturale, dalla quale evidentemente non voleva – o sapeva – allontanarsi.

Addensò il colore, un poco lo complicò e lo drammatizzò – ma fino ad un certo punto – in determinate opere dal tono più decisamente espressionista, tornando verso la fine ad una figurazione più limpida e distaccata, che aveva tuttavia conservato l’arricchimento cromatico della fase precedente.

Fu, è giusto che dica, una mostra importante, che diede nuovo respiro all’attività dei suoi ultimi anni e la definì meglio nei suoi contorni di pittrice, di artista che, dall’interno della sua specifica sensibilità, aveva saputo leggere i tempi che viveva.

Con Dora Bassi concordammo una mostra intitolata Trasparenze. Dipinti ’90-’95.

Ragioni e temi di quella mostra erano stati da lei stessa chiariti in un testo scritto tempo prima: «Negli anni ottanta ho troncato di colpo con la “modernità”. Avevo bisogno di riflettere, di rigenerare il mio modo di fare arte ricaricandolo di valori umani, di esperienze di vita… Così mi sono trovata sul crinale da cui si sono divaricate le strade della figurazione e dell’astrazione, e in quel luogo abbandonato da quasi cento anni ho trovato ossigeno. Luogo dove fatalmente ci si può imbattere in giganti come Munch, Van Gogh, Matisse, con figure intense e geniali come Charlotte Salomon, Paula Modershon, dove ci si misura con grandezze reali, dove si impara a cedere il passo alla sapienza. Stando in quei luoghi ariosi e puri ho ricominciato a sillabare, felice per questa adolescenza ritrovata».

Così quella mostra fu una riconquistata immersione nella pittura, in un colore espressionista che ritrovava le ragioni della soggettività, dell’autobiografia, che non temeva di scavare nella propria storia per farne comunque un ponte di comunicazione con le esperienze dello spettatore.

Autoritratti di tristezza e autoidentificazione, muti colloqui col telefono e col televisore, l’avanzare della vita tra difficoltà e desiderio dell’incontro con altri attori dell’umano.

«Si tratta, parlando in generale, di opere pregne di tempo, tempo non naturalistico ma psicologico, il tempo rallentato o velocissimo del ricordo, dell’emozione, magari della malinconia: senza solipsismo, però, anzi in una costante meditazione che rimanda all’altro da sé, al mondo, a tutto ciò che ci limita ma anche ci definisce, ci dà identità, ci recupera».

E concludevo il mio testo in catalogo affermando che era necessaria la grande antologica, quella che avrebbe dovuto fare «finalmente il punto su un lavoro tra i più rilevanti e complessi della nostra arte attuale».

La mostra venne nella primavera del ’97, presso il Castello di Gorizia e Dora mi chiese di curarla.

Furono mesi di un lavoro ricco, coinvolgente.

Esaminammo e scegliemmo le opere per tutti i singoli passaggi del suo lavoro – lungo allora cinquant’anni.

Esso partiva da suggestioni tra Kandiskij e Chagall, passava attraverso il realismo del dopoguerra – qui asciugandosi in un colore vibrato e severo, ben rispondente al nuovo scopo “morale” che la pittura assumeva agli occhi dell’artista “impegnata”, a suo agio tra i  compagni d’avventura, Anzil, Zigaina, Altieri, Canci Magnano -; toccava inevitabilmente, attorno al sessanta, il nodo dell’informale, riaccendendosi in un colore espressionista capace di forte, a volte drammatica intensità allusiva, un colore del resto già adibito nelle ceramiche a smalto realizzate per la Via Crucis della Chiesa della Campagnuzza, a Gorizia.

Negli anni settanta l’artista approda – certo sulla scorta di Dino Basaldella – alla scultura in ferro e acciaio, un passaggio ricco nello stesso tempo di forza e leggerezza, che può essere esemplificato in opere quali la Figura alata del 1972 o il Concentrico del ’75 – e fu, questo, uno degli aspetti meno conosciuti e più sorprendenti della mostra –; poi, nei primi anni ottanta, avvenne quel ripensamento del “classico”, che anche si concretizzò in opere di grande originalità.

Scrivevo, rispetto a quel momento: «Le assunzioni linguistiche sono precise, e ognuna risponde perfettamente al suo scopo. In Eros e Psiche con serpentelli la fredda levigatezza classicheggiante del disegno si complica in una gelida scacchiera che gli specchi rimandano indefinitamente, sicché è ancor più forte il trasalimento quando l’occhio scopre i serpenti che rendono obbrobriosa una finta perfezione, una perfezione in qualche modo infernale.

La ripresa linguistica è quindi pura freccia che colpisce il bersaglio vero, un’angosciosa sensazione  di difficoltà e solitudine: che è il tema anche dell’altrettanto claustrofobico e disperato Circuito chiuso, dove un uccello è condannato per l’eternità a percorrere lo stesso giro di corridoi.

Così l’artista […] mette un linguaggio della storia dell’arte in contraddizione con la sua finitezza, con la sua chiusura, riattualizzandolo perfettamente nel contemporaneo».

La componente intellettuale nell’arte di Dora Bassi è sempre stata importante, ho conosciuto pochissimi artisti in grado di riflettere a fondo, come lei faceva, sulle proprie intenzioni di poetica, sui passaggi necessari a raggiungere un certo scopo estetico.

Ciò è del resto facilmente riscontrabile in un libro-intervista che – io almeno – ho letto con molto piacere, Conversazioni sulle arti visive, costruito da Dora Bassi e Gianfranco Ellero in dialogo, e pubblicato nel 1989 dalle Arti Grafiche Friulane.

è un libro che, con un po’ di pazienza, si può ancora trovare, presso biblioteche o presso privati, e che consiglio a chiunque sia interessato all’arte in generale, e a Dora Bassi in particolare.

 

 

Lenci Sartorelli

La quercia di Villanova

olio su tela, 1955