l’Italia s’è destra

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Alla fine è successo, com’era largamente previsto dai sondaggisti: la destra, in prima persona, è in procinto di governare questo nostro complicato Paese, esattamente cent’anni dopo un precedente storico comunque più inquietante, almeno a giudicare col senno di poi. In prima persona, sottolineo, perché governi di destra si sono succeduti, alternandosi con altri, almeno dal 1994, quando si formò il primo Governo con la partecipazione del partito più di destra tra quanti sedevano in parlamento, ed è stata la prima volta dopo la breve, sanguinosa e ingloriosa esperienza del Governo Tambroni, in carica tra il marzo e il luglio del 1960, l’unico che avesse previsto l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano. Nei casi più prossimi a noi, governi e maggioranze ci tenevano ad essere definiti di “centro-destra” e non di destra (a differenza del resto dello schieramento politico, che essi definivano rigorosamente “sinistra”: un indifferenziato insieme che includeva Tabacci, Casini, Travaglio e Che Guevara). Ora quella preclusione lessicale dovrebbe venir meno, con il progressivo restringersi della foglia di fico costituito dal partito un tempo di maggioranza relativa della coalizione, che certo non riesce più a coprire la vistosa avanzata della formazione guidata dalla presidente del Consiglio al momento ancora in pectore. Il nostro linguaggio, con l’abbandono di questo fuorviante eufemismo del centrodestra, ne avrà certo guadagnato in chiarezza, ora che possiamo dire pane al pane, vino al vino e destra alla destra più di destra che finora si sia vista in questa Repubblica dalle parti di Palazzo Chigi.

Non è proprio facile comprendere a fondo le cause di questa mezza rivoluzione copernicana nel bizzarro paesaggio politico italiano: tenderei ad escludere la simpatia personale della leader della destra, ma si tratta probabilmente di un’assoluta incapacità, da parte di chi scrive, di individuarne anche una minima traccia. Sicuramente più percepibile la constatazione dell’impossibilità di pervenire ad un accordo da parte delle forze politiche di centro e di sinistra, tale da consentire una competizione elettorale ad armi pari, che avrebbe prodotto un risultato affatto diverso rispetto a quello che ha assegnato una maggioranza schiacciante alla destra, ma solo nelle aule parlamentari, non certo nelle urne. Oltre a manipolare i risultati delle elezioni, creando di fatto un vistoso premio di maggioranza alla coalizione che ottiene un voto di più nei singoli collegi, la legge elettorale vigente, il cosiddetto Rosatellum, mediante collegi elettorali di vaste dimensioni territoriali, mediante liste di candidati riservate ai vertici dei singoli partiti, senza la possibilità per l’elettore di esprimere preferenze, di fatto è un meccanismo che sottrae potere agli elettori per concentralo nelle mani dei politici, che saranno indotti a disegnare i nuovi gruppi parlamentari a loro immagine e somiglianza. E naturalmente che ben difficilmente si priverebbero di tale prerogativa della loro casta.

Certo la nuova destra si presenta senza fez, senza manganelli, senza camicie nere e solo sporadicamente con saluti romani, ma esistono altri distintivi e gagliardetti per riconoscerla. Una politica fiscale, ad esempio, basata sulla cosiddetta flat tax, in contraddizione con la progressività delle imposte prevista dalla Costituzione, oppure il ricorso a nuovi condoni fiscali o di altro vario genere che favoriscano gli evasori a danno degli altri contribuenti. O anche una politica del lavoro che, prevedendo la cancellazione del reddito di cittadinanza, non intenda sostituirla con altri adeguati strumenti di previdenza sociale per coloro che non dispongono di un reddito sufficiente almeno alla sopravvivenza. E rimane ancora fuori la politica estera, soprattutto nei confronti dell’Unione Europea, la scelta delle alleanze in quello e in altri ambiti internazionali, i diritti civili da assicurare a tutti, i temi dell’accoglienza, soprattutto per i richiedenti asilo.

Staremo a vedere.