Luci e ombre di un palmares altalenante

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di Alan Viezzoli

 

La 73ª edizione della Berlinale, il festival del cinema di Berlino, che si è svolta dal 16 al 26 febbraio 2023 è la prima a ritrovare una sorta di “normalità” post-pandemia. I tamponi a cui gli accreditati stampa dovevano sottoporsi in maniera obbligatoria ogni mattina sono un mero ricordo dell’anno scorso e anche le mascherine in sala sono solo consigliate.

A ricordarci i momenti di pandemia ci pensano i personaggi all’interno del film vincitore dell’Orso d’oro di quest’anno, Sur l’Adamant di Nicolas Philibert, girato nel 2021. La giuria, presieduta dall’attrice statunitense Kristen Stewart, ha deciso di premiare un documentario, l’unico in concorso, ripetendo così un verdetto che aveva già caratterizzato la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dello scorso settembre dove aveva vinto Laura Poitras con il suo Tutta la bellezza e il dolore – All the Beauty and the Bloodshed.

Il premio a Sur l’Adamant – che racconta la vita quotidiana che si svolge sull’Adamant, un centro diurno costruito su un barcone ormeggiato lungo la Senna e frequentato da persone con disturbi mentali – denota ancora una volta la voglia di cinema del reale da parte dei cineasti coinvolti nelle giurie. Se tale ricerca può essere potenzialmente meritoria, è difficile non rilevare che in entrambi i casi i film scelti per il maggior premio sono anche i più deboli di tutto il concorso. Infatti la pellicola di Nicolas Philibert, benché racconti dettagliatamente una struttura che funziona e che aiuta concretamente tante persone che, per loro stessa ammissione, senza l’Adamant starebbero chiedendo l’elemosina lungo qualche strada di Parigi, fa trasparire il suo messaggio già dopo dieci/quindici minuti dall’inizio e il resto del film è semplicemente un’eterna, infinita riproposizione scolastica dello stesso schema narrativo.

Molto più interessante appare il premio come miglior regia a Philippe Garrel per il suo Le grand chariot. Il film – che racconta le difficoltà che tre fratelli incontrano nel portare avanti l’attività di famiglia, un teatro di burattini, alla morte del padre – vede protagonisti Louis, Esther e Lena Garrel, ovvero i tre veri figli del regista. Al di là di una fastidiosa propensione a concentrarsi maggiormente sui personaggi maschili, Le gran chariot è scorrevole e racconta molto bene cosa significhi per un attore/autore dover lasciare un’eredità artistica così importante ai propri successori.

Affascinante anche la decisione di inserire un concorso un film come Mal Viver del regista portoghese João Canijo, vincitore del Premio della Giuria. La particolarità è che si tratta di un film virtualmente diviso in due parti: l’altra metà, intitolata Viver Mal, è stata presentata al festival nella sezione “Encounters”. I due film raccontano alcuni giorni all’interno di un albergo dal punto di vista di chi lo gestisce (in Mal Viver) o dal punto di vista dei clienti (in Viver Mal). Questo “controcampo” però non funziona particolarmente. Rispetto al suo gemello, Mal Viver fatica a ingranare, tra problemi dell’hotel sempre solo raccontati ma mai mostrati e un rapporto madre/figlia problematico ma tutto sommato già visto e, per certi versi, innaturalmente forzato verso il dramma. A differenza di Viver Mal, dove la struttura episodica fa fluire il film molto meglio, qui troppo spesso il regista si perde nel voler raccontare ogni silenzio e ogni sguardo tra le protagoniste e alla lunga il film non ha la tenuta dei 127 minuti che servono a pareggiare quelli di Viver Mal.

E il cinema italiano? L’unico regista nostrano in concorso era Giacomo Abbruzzese, già autore di diversi documentari ma alla sua prima opera di finzione. Il suo film, intitolato Disco Boy, coprodotto con Francia, Belgio e Polonia, ha portato a casa solo un premio tecnico andato a Hélène Louvart per la fotografia. Oggettivamente troppo poco per una pellicola che risulta ancora acerba ma non per questo priva di elementi affascinanti.