Marcello Mascherini civilissimo e barbaro

| | |

Celebrati i centodieci anni della nascita con una grande mostra

di Michele De Luca

L’intero percorso creativo di Marcello Mascherini acquisisce un ritmo personale nell’ambito delle esperienze coeve, pur conservando quell’originale sapore arcaico di cui si era nutrito giovanissimo a Isernia, durante gli anni di guerra, nelle botteghe degli artigiani locali. Poetica, aspirazioni e risultati stilistici sono stati indicati con precisione da lui stesso in occasione della mostra personale del 1959 nella Galerie David et Garnier di Parigi: “’Nello sforzo che sostengo per mantenermi in un linguaggio figurativo, io propongo la mia scultura come un oggetto il quale trova in se stesso le sue leggi: la forma del quale deve essere giudicata secondo l’equilibrio dei pieni e dei vuoti e dei chiari e scuri, come una forma pura: forma che tuttavia resta carica di un profondo sentimento umano”. Nel 1953, sempre a Parigi, Ossip Zadkine, presentandolo nella mostra alla Galerie Drouant-David, aveva sottolineato questa necessità di muoversi “tra quel piccolo numero di principi immutabili che attraversano la storia dell’arte e l’evoluzione della scultura come un rivo di cristallo”. Marcello Mascherini, nato a Udine nel 1906, vissuto sempre a Trieste, dove si era trasferito con la madre nel 1910, è morto a Padova nel 1983. Tra il 1919 e il 1924, frequenta l’Istituto Industriale e la Sezione scultori ornati, sotto la guida di Alfonso Canciani, per poi perfezionarsi nello studio dello scultore Franco Asco. Esordisce nel 1925, a Trieste, segnalato da Silvio Benco, alla Mostra collettiva del Circolo Artistico, e subito dopo, con una mostra personale, al Circolo Manzoni che gli vale una serie di collaborazioni con gli architetti Aldo Cervi e Umberto Nordio e le partecipazioni alle Sindacali dove nel 1929 riceve la Medaglia d’Argento del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1931, su invito di Gio Ponti e Gustavo Pulitzer Finali, collabora all’arredo della Motonave “’Victoria I” del Lloyd Triestino che, oltre a metterlo in contatto con Augusto Cernigoj, Gino Severini, Mario Sironi, Libero Andreotti, Massimo Campigli e altri, da inizio a una più che trentennale attività in collaborazione con architetti e artisti di chiara fama per la realizzazione di opere d’arte collocate sui più noti transatlantici e sulle più belle navi da crociera.

Sempre nel 1931, partecipa alla Prima Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma dove incontra Arturo Martini. Sarà presente, poi, a tutte le edizioni della rassegna romana, fino alla X Quadriennale del 1972, mentre la sua prima presenza alla Biennale di Venezia è del 1934 e sarà coronata nel 1950 con il Primo Premio ex-aequo per la scultura. Tra le Quadriennali e le Biennali si sviluppa una intensa attività che lo vede tra l’altro presente alla Triennale di Milano (nel 1933, il grande gesso di Icaro viene indicato da Edoardo Persico come “di ottima disciplina stilistica e dai moderni valori architettonici”).

In occasione dei centodieci anni dalla sua nascita, la Fondazione Tito Balestra di Longiano, nella splendida terra di Romagna, ha allestito nel superbo Castello Malatestiano, una bella mostra (“Segno e scultura. 1927 – 1980”) curata da Giuseppe Appella (che nel 2004 curò a Matera la irripetibile esposizione nelle Chiese Rupestri di Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci), che comprende cento opere, tra sculture in bronzo, datate 1933-1974, e opere grafiche realizzate tra il 1927 e il 1977 con tecniche quali il disegno a matita o a tempera e la xilografia, l’acquaforte e la litografia, queste ultime utilizzate anche per i libri d’artista come La rapsodia del fascismo (di Gianni Carmine, Editrice “L’Italia nel mondo”, Trieste, 1927), Tra sera e note (di Biagio Marin, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1968), I fiori di Marcello Mascherini (di Vanni Scheiwiller e Alessandro Mozzambani, collana “Arte Moderna Italiana” numero 65, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1975), L’Orfeo di Mascherini (con testo di Alfonso Gatto, Corbo e Fiori Editore, Venezia, 1975), Liriche (di Gabriele D’Annunzio, con testi di Alfio Fiorini, Emilio Mariano, profilo su Mascherini di Alessandro Mozzambani, edizione probabile dello stesso Alfio Fiorini, Verona, 1976) e le cartelle: Tre acqueforti di Marcello Mascherini e dodici frammenti lirici di Saffo, Alceo ed Anacreonte tradotti da Tino Sangiglio (Collana Grafica del Testimonio, Stamperia Cartesius Editore, Trieste, 1976), Dannunziana di Marcello Mascherini (cartella con tre acqueforti, presentazione di Alessandro Mozzambani, Verona, 1976).

Di questo artista “civilissimo e barbaro”, come ebbe a chiamarlo il suo grande amico Alfonso Gatto, colpiscono, però, assieme al desiderio di conoscere e confrontarsi con la produzione internazionale, il piacere di raccogliersi ed isolarsi nel suo mondo, in una sorta di “mito”, da lui stesso alimentato, di una solitaria e quasi sdegnosa autoreferenzialità. La sua scultura, definitasi tra echi di una figurazione impressionista, la plastica di Aristide Maillol e un certo arcaismo che si richiama, in parte, ad Arturo Martini, approda nella fase più matura, a partire dagli anni del dopoguerra, ad una sorta di accentuazione della sua tendenza alla stilizzazione, poi evoluta, attraverso un periodo di trattamento “informale” della materia incominciato attorno al 1955.

L’attenta analisi dell’opera grafica di Mascherini, come ci fa notare Appella, svela una creatività fortemente legata alla pratica del disegno. Nelle sue opere, infatti, molto evidenti sono i valori grafici della composizione, accompagnati da una sapiente campitura degli spazi, da una sicura gradazione dei toni e da una grande capacità nel dare forma alle cose, anche attraverso tocchi leggeri e sottili. Nelle figure, filiformi ma dotate di un tratto che ne traduce tutta la plasticità, si intrecciano, in nome di quel suo amore per il mondo antico, elementi classici e contemporanei con l’intento di rinnovare quei miti che diventano grandiose rappresentazioni visive di una realtà ancora viva. Il mito, quindi, diventa per Mascherini il tramite attraverso cui esprimere la totalità dei valori umani, come ben individua Alfonso Gatto scrivendo per l’Orfeo di Mascherini: “Quel che di se stesso il mito può tacere con un imperativo del silenzio e della figura muta più forte della sua voce, è ancora memorie di cose non viste e credute, una contemporaneità, nello spazio visionario, dei tempi accaduti o da venire sulla terra”.