Monica Guerra

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Entro Fuori Le Mura, il nuovo libro dell’autrice faentina, potrebbe essere un’avventura di viaggio

di Sandro Pecchiari

 

È un piacere presentare Monica Guerra, nella prossima pubblicazione del suo nuovo libro Entro Fuori Le Mura (Arcipelago itaca).

 

Monica Guerra, faentina, è presente sulla scena letteraria dal 2014 con libri che hanno avuto negli anni importanti riconoscimenti e menzioni d’onore, sia in italiano che in inglese, ed è presente in numerose antologie e riviste letterarie. La sua produzione poetica è affiancata da un poderoso lavoro di traduzione. Cura dal 2016 la rassegna Poetry a Faenza e ha organizzato le prime due edizioni del Festival di Poesia Tres Dotes. Presiede dell’Associazione Independentpoetry (www.independentpoetry.org).

 

La lettura di Entro Fuori Le Mura fa riscoprire in noi un territorio che delimita, rassicura, si rifiuta, si elimina, si ritrova. E noi di volta in volta siamo diversi nel relazionarci con questa lettura del territorio: un hortus conclusus in abbandono e riedificazione continua.

Le mura attorno agli agglomerati urbani, a volte integre, a volte in rovina o scomparse del tutto, sia che vengano inglobate e riciclate a sostegno di edifici posteriori, sia che diventino strade di città, tratturi di campagna, piste ciclabili o, più discretamente, vengano nascoste e inghiottite dalla vegetazione, mantengono comunque una traccia, possono sopravvivere persino nelle definizioni delle mappe topografiche, nominando campi e case come ’fuori’ o ‘dentro’, marcando il territorio con la loro presente non-presenza. E, come succede in questo libro, l’esperienza poetica può essere una strategia di rivelazione e svelamento nella quale non è essenziale definire chi effettui che cosa, ma che permette di affidarsi a un sentiero che magicamente può rivelarsi reciproco e speculare.

Il libro ci conduce nel percorso tra l’identificazione e la fusione/opposizione tra osservatore e realtà esterna; si gioca tutto nella lettura/rilettura dei luoghi, nel riconoscimento del Genius loci, proteggente siti con una precisa identità, non sempre immutabile.

Ci sono sostegni precisi a cui fare riferimento: la California, le case di riposo, Austin, Texas e il parco Bucci a Faenza, Mosca, Reghin, Gurghiu, i Carpazi di oggi che si intersecano con una loro realtà antica tuttora esistente, un bar scovato per caso a Bologna (con un arredamento che lo fa sembrare proprio un posto a New York). Le storie che il lettore immagina nelle pennellate minimali offerte dai versi di questo libro ci portano in una ricostruzione random di una possibile trama a monte, intersecando e sovrapponendo il proprio personale vissuto e la propria memoria a quelle nei versi.

Il libro potrebbe essere un’avventura di viaggio con indicazioni precise su come affrontare pericoli e contrattempi con la forza vigile e consapevole della mutabilità:

 

(…) annaspare nella corrente / tra i sassi è molto /molto più che niente

 

l’alleanza del vuoto / è sul fondale del resto (…)

 

Spessissimo, in questa rilettura dei percorsi, si fronteggia l’irruzione del nulla e dell’assenza nella percezione dell’intravisto, nei frammenti di ricordi scollegati. Si può solo essere testimoni senza giudicare.

In Down Duval, ad esempio, l’osservazione per accumulazione, come del resto in tutta questa sezione del libro, aumenta il disagio di non comprendere, in una dovuta sospensione di giudizio, lo sconsolato contatto con un Genius loci omologato:

 

  1. 5,00 pm

i pick up si gonfiano ai semafori nel loro rumore sfondo da astronavi / i chicani smontano dalle impalcature sotto i caschi fradici / alla fermata del 628 l’uomo di colore assedia ogni minuto l’orologio / al seven eleven il senzatetto stende il solito cartone

  1. 5,15 pm

io non fumo da vent’anni / dietro ai vetri una ragazza sbuffa tra lo smalto cotto e i gamberetti / un chihuahua nella borsetta e il caposala forse è d’origine italiana / mentre sotto i patio scoloriscono i flamingo di plastica / una madre in cucina rimesta il gin in fondo a una tazza

  1. 5,20 pm

precipita una pioggia estiva / dietro il verde la ruggine sui cancelli e niente fiori sulle siepi / nelle pieghe di un divano un uomo grasso con la birra in mano / e tutti corrono d’intorno tutti sudati corrono / come lo avessero detto alla televisione.

 

Le poesie sottolineano l’azzerarsi dell’avvicinamento e della possibile conoscenza reciproca, riducendo le relazioni a mero accumulo e soddisfazione di bisogni, condizionato dai cliché imposti dai media come nuove regole e nuovo reale, dove i social, Facebook, Instagram e quant’altro, hanno il ruolo di arbiter elegantiarum:

 

le risate nude nelle foto -ognuno / il suo profilo preferito- stasera / è l’abitino succinto il trucco // -al banco qualcosa da bere- // si avvicina un giovanotto / la camicia bianca da uomo -a casa / non c’è mai nessuno- // stare assieme è il ghiaccio / sul fondo del bicchiere

 

Le poesie suggeriscono gradualmente un cambio di rotta dopo tanto ‘sviversi’, nonostante guadare gli accadimenti sia ancora durissimo: c’è ‘fango’ e ‘paura’ ancora, vocaboli decisamente ricorrenti, ma come quella che si può avere di temporali che forse si allontanano o perdono di intensità. O forse nell’andare siamo diventati sufficientemente forti da non temerli e da allontanarli:

 

si rimescola il fango / che è sempre fango fino all’uomo // la dose delle conclusion / sconfitti o vincitori paludi / immortali perché soli //a dire noi i giusti // e qualcuno sempre contro

 

*

 

Verso la parte conclusiva della raccolta vi è una significativa irruzione dei sensi: colori, odori e profumi, rumori, pigolii, suoni di vento e di passi (finalmente passi non ostili), e la voce e il canto. Riconoscere finalmente che si può e deve accogliere il bello se il bello c’è. E la terra è buona e pronta per rifiorire, qualcuno forse arriverà:

 

chiedilo a un indizio di neve / niente è impossibile / nell’unità il punto zero esiste / fosse ripartire dalla cenere / e in questa notte a lato delle stelle / anche lo sterco esala un bagliore

 

*

oggi è in ginocchio / tra il buio delle ortiche -qui / è ipotecato anche il domani- / ma a tratti suona il maestrale / tra i rami il giorno sfida / la bellezza di una zagara

 

*

in questo cono d’ombra / non arriva mai nessuno // il giorno / s’infrange in arcipelaghi / eppure / è terra buona tra i sassi // in questo cono d’ombra / non arriva mai nessuno // eppure / un calpestio-

 

*

 

E così, come in Corona, Paul Celan, da Mohn und Gedächtnis, Papavero e Memoria, 1952, “è tempo che la pietra si degni di fiorire, è tempo che si sappia”, Monica riverbera le parole della poesia in una fusione totale e totalizzante:

 

e la voce le mille voci / la fioritura della pietra / restiamo dove / non è il tempo là dove / lo spazio non è cosa / diveniamo l’altro, / la stessa cosa

 

*

 

Una poesia termina la raccolta come momento meditativo, distanziata dalle altre e in corsivo, come una pausa per riprendere fiato. È il momento di sostare in un ambiente più pacato, riconoscendo che il nostro contrappeso di umanità può farsi sentire, e che, dopo tutto, i posti ne richiamano altri, trovati per caso, o che spesso ci trovano loro e sanno trasformare le nostre percezioni ed emozioni in un sorriso. Il vissuto diventa possibilità di rimescolare le pedine con sorpresa e gratitudine.

 

in un bar del centro – white bakery – / una new york cheesecake cementa un buco / i giganteschi bastoncini di zucchero / grondanti alle pareti oggi sono presagi / – la finzione a volte salva la vita – forse / una pretesa edulcora la storia / ma la memoria non cicatrizza così / in via delle moline pieno centro / bolognese mi aggrappo alle casse / colorate delle lattine forse un decollo / nella teoria infinita di lucine

 

Nonostante tutto, i luoghi distanti si ricompattano e si ricollegano casualmente (ma è lecito dubitare del caso qualche volta) in una celebrazione di bastoncini di zucchero e porzioni di cheesecake. La memoria potrà anche non cicatrizzare, ma ora è una memoria che diventa forza e possibilità di alleggerimento e liberazione da ogni possibile muro. Nessuno si sarebbe sognato di intravedere una via di fuga tra le casse colorate delle lattine come se fosse la pista di un aeroporto, eppure…