Narrazioni a teatro

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di Paolo Quazzolo

 

Una sorta di “moda” teatrale che sta dilagando negli ultimi anni è quella di proporre, sempre più spesso, spettacoli tratti da testi narrativi. L’operazione è rischiosa dal momento che lo spettatore, inevitabilmente, tende a fare un confronto tra il lavoro narrativo e lo spettacolo da esso derivato. E molto spesso tale confronto va a favore del modello di partenza, poiché le storie concepite per la pagina scritta fanno uso di strategie che non possono essere trasposte con eguale efficacia sul palcoscenico. In particolare, mentre in un romanzo possono trovare posto un numero illimitato di personaggi, si può cambiare costantemente ambientazione e, per di più, è possibile narrare una storia anche molto lunga e articolata, il palcoscenico, che è un luogo finito, deve necessariamente concentrare tutta la vicenda in un numero limitatissimo di spazi; inoltre il teatro non può costringere gli spettatori oltre una certa durata temporale e infine, per motivi anche di natura economica, non può portare sulla scena un numero eccessivo di personaggi. Da ciò ne deriva il concetto stesso di “riduzione”, che vuol dire, appunto, tagliare, eliminare, semplificare, inserire in un contenitore più piccolo ciò che in origine era stato concepito per un tipo di fruizione completamente diverso. Ma talora il “miracolo” accade e il prodotto scenico riesce a tenere il confronto con il modello narrativo.

È il caso de La camera azzurra, proposto al Bobbio di Trieste e al Comunale di Monfalcone, spettacolo tratto dall’omonimo romanzo pubblicato da Georges Simenon nel 1964. Diremo subito che la riduzione di Letizia Russo è davvero bella e trova una chiave di lettura che, con un autentico colpo di scena al finale, riesce a offrire una lettura imprevedibile dell’intero romanzo / spettacolo. La asseconda Serena Sinigaglia, una delle migliori registe del panorama italiano contemporaneo, che crea uno spettacolo molto denso, dai ritmi serrati e dove bene emerge l’elemento psicologico che caratterizza la narrativa di Simenon. In altre parole l’accento viene posto non tanto sul “chi è stato”, quanto piuttosto sul “perché l’ha fatto”, scandagliando così a fondo motivazioni, sentimenti e stati d’animo dei personaggi. Affiatati e convincenti tutti i quattro interpreti: Fabio Troiano, Irene Ferri, Giulia Maulucci e Mattia Fabris.

È tornato Marco Paolini sul palcoscenico del Politeama Rossetti con il suo nuovo spettacolo Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse. Si tratta di una rivisitazione dell’Odissea in cui l’autore / attore veneto si confronta con una figura emblematica della storia della cultura occidentale. Nella lettura offerta da Paolini Ulisse viene rappresentato come un calzolaio viandante che vaga per il mondo: dopo essere tornato a Itaca, aver fatto strage, con l’aiuto del figlio Telemaco, dei Proci che avevano invaso la sua reggia, e dopo una notte d’amore con Penelope, decide di ripartire autoinfliggendosi così una sorta di terribile punizione, anziché godersi il tanto agognato riposo. Gli spettacoli di Paolini, abbandonata la stagione del “teatro civile”, hanno teso ad affrontare tematiche di diverso tipo, tuttavia non sempre con risultati eccellenti. Questo spettacolo, di cui si apprezza l’aspetto musicale, nel suo insieme fatica a procedere, soprattutto nella prima parte, riuscendo a ottenere solo nella sezione finale un maggiore coinvolgimento.

Shakespeare esercita sempre un grande fascino sulle folle: non a caso il Politeama Rossetti in occasione delle recite de La tempesta ha registrato un numero elevato di presenze a tutte le recite. Si tratta dell’estremo capolavoro del bardo, un testo di grande poesia ma al tempo stesso complesso nei suoi molteplici intrecci e significati. La messinscena proposta da Roberto Andò per il Teatro Biondo di Palermo ha riservato ben poche emozioni e non pochi spunti di noia. Recitazione generalmente piatta, una commistione di elementi disparati – dai costumi di foggia per lo più seicentesca alla presenza sulla scena di un frigorifero che ha calamitato l’attenzione e la curiosità del pubblico – che non hanno contribuito più di tanto a penetrare l’affascinante meccanismo shakespearano. Resta la conclusione dello spettacolo, con l’intenso ed emozionante monologo di Prospero «I miei incantesimi sono finiti», con cui il drammaturgo si congeda per sempre dal pubblico chiedendo, attraverso la voce del suo personaggio, di essere perdonato e di essere sciolto da ogni laccio, gonfiando «col vostro fiato amico / le mie vele, altrimenti è il fallimento / di tutto il mio progetto / ch’era quello di farvi divertire». Sono parole del sommo Shakespeare, che volano alte anche in assenza di grandi interpretazioni.