Noi, Nelda Stravisi

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di Viviana Novak

 

Quando parla usa spesso il plurale. Per raccontarsi e raccontare la sua vita di donna e di artista vissuta accanto all’uomo che ha amato, marito e padre dei suoi figli, ma anche complice di un itinerario artistico e culturale, che si snoda lungo i decenni più significativi del secolo scorso: Nelda, pittrice, grafica e Tullio Stravisi, raffinato fotografo di luoghi, paesaggi e persone.

“Una coppia anomala” nel panorama degli artisti triestini di quegli anni, come ancora oggi lei vuole sottolineare, che rifiutò il clichè abusato dell’artista/personaggio, stravagante ad ogni costo (“si può essere artisti pur essendo persone normali” mi dirà) dando la precedenza ai valori tradizionali, essendo entrambi amanti dello sport, della vela e del mare, ma soprattutto genitori attenti all’educazione dei loro due figli. Una coppia come tante altre nell’apparenza.

Oggi Nelda ha novantadue anni e ti accoglie nella sua casa con una gaiezza giovanile. Vedendola, nonostante i problemi dell’età, mi viene in mente una frase della scultrice Ossi Czinner “Ma lei lo sa che noi artisti rimaniamo bambini?”. È elegante, nessun’ombra di trasandatezza e soprattutto ancora luce negli occhi azzurri. La mente è rapida, a dispetto della parola che ogni tanto necessita di un ritmo più lento e di piccole pause di riflessione.

Tullio è mancato nel 2003 e lei d’allora ha combattuto fieramente, con tenacia, affinché non andasse disperso il suo archivio (oggi al CRAF di Spilimbergo) e la sua memoria venisse consacrata in un’esposizione che riassumesse degnamente il suo cammino di artista. Percorsi non sempre facili attraverso i rapporti con le istituzioni. Alla fine, il risultato di tanta fatica è arrivato anche a Trieste nel 2011, con un’esaustiva mostra organizzata dalla Provincia di Trieste al Magazzino delle Idee.

Nel frattempo lei non si è mai fermata. Impegnata in un’esplorazione incessante dei propri orizzonti, ha continuato a esprimersi attraverso la grafica, l’acquarello, la china, i carboncini ed altre tecniche. La sua casa ne è una testimonianza. In un salotto dall’apparenza borghese le sue opere e l’objet trouvé si mescolano a sculture, quadri, grafiche e disegni di amici artisti, esposti con il rigore di chi ha ordinato i ricordi della propria esistenza. Il passato e il presente sono archiviati all’interno di grandi cartelle riposte con ordine su un tavolo e in un grosso armadio: evidenziate da date, raccolgono disegni e bozzetti. La casa è uno scrigno di vita, che ha dovuto ospitare tutto il materiale che si era accumulato per cinquant’anni nello studio di Piazza Carlo Alberto, dopo che infiltrazioni d’acqua e di umidità avevano rischiato di comprometterne la sopravvivenza.

“Sono una che ha voluto esprimere i suoi pensieri attraverso l’arco dell’esistenza” mi dice.

Vorrei procedere con ordine nelle domande, ma all’ordine che ci circonda nella disposizione di quadri e oggetti non corrisponde l’ordine dei pensieri, che vagano con capricciosa anarchia, stimolati dai lavori che Nelda via via mi mostra. Cosi cominciamo da esperienze recenti: una serie di carboncini che rappresentano dei tronchi contorti. “Questi sono gli ulivi di Cherso… sotto, le radici contorte sono abbracciate da un ramo”.

“Raccontami di te Nelda” le chiedo “e, se riusciamo, cerchiamo di seguire un filo cronologico.”

“Un filo cronologico? Ma il tempo per me non ha più senso…i mesi, i giorni…si attaccano tutti nella mia mente….

I miei genitori mi incoraggiavano sempre a disegnare e a dipingere perché dipingevano anche loro. Mamma amava rappresentare fiori com’era di moda all’epoca. Papà era eccezionale nei pastelli e mi insegnava le varie tecniche ed io copiavo le immagini delle cartoline. Per questo motivo volli iscrivermi all’Istituto Magistrale, una scuola che mi consentiva di dedicare molte ora al disegno. Fu proprio in occasione dei Ludi Juveniles, il saggio annuale della cultura fascista, che comprendeva arte e sport, che si organizzò una mostra di pittura nella Galleria del Tergesteo in cui vennero esposti alcuni miei lavori. Ricordo che vi partecipò anche Nino Perizi…

Di dedicarmi all’insegnamento non ci pensavo proprio, perché all’epoca si doveva fare gavetta nei piccoli paesi del Carso o dell’Istria. Trovai, invece, un lavoro nell’Economato dell’ITIS. Era già scoppiata la guerra e io mi occupavo delle mense, dei conti; parlavo bene il tedesco, per cui quando Trieste si trovò inserita nell’Adriatisches Küstenland fui facilitata nei rapporti con le varie autorità. Purtroppo, a causa della guerra, non potei iscrivermi all’Accademia delle Belle Arti di Venezia.

Fu la frequentazione della libreria in via Cavana della signora Trani, affermata pittrice, a farmi entrare in quel periodo a contatto con alcuni artisti. Ricordo Gianni Blason con cui discutevo delle teorie filosofiche di Rudolph Steiner (filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco vissuto tra il 1861e il 1925, n.d.r) ma a me interessavano soprattutto le teorie riguardanti il colore. La tricromia, la quadricromia nella pittura ad acqua; le prime esperienze furono, pertanto, di tipo figurativo, specie con soggetti religiosi. Appartiene a quel periodo un’immagine della Madonna, anche se io non sono mai stata religiosa in senso tradizionale”.

A questo punto Nelda scatta dalla sedia e va verso il suo archivio… da una cartella prende alcuni cartoncini dipinti, tra cui quello appena menzionato, poi un delicato acquarello che ritrae sua nonna con il capo reclinato; temi e colori che fanno trasparire un orizzonte di umana poesia. Quasi religiosa.

“Per molti anni, a partire dal 1948 e fino al 1955, ho sempre privilegiato la pittura ad olio, con uno stile essenziale chiarista e temi attinti dal mondo della natura. Sono stati anni di mostre e riconoscimenti ufficiali. Alcuni critici accostarono talvolta la mia pittura a quella di Morandi, altri vi individuarono temi metafisici, ma a me ha sempre interessato ciò che della natura col tempo è destinato a dissolversi”.

“In che modo hai conciliato la tua vita di madre e moglie con quella di artista?”

“La nascita di Paolo, il mio secondo figlio, interruppe momentaneamente la mia attività artistica. Scelsi di essere soprattutto madre, il resto avrebbe atteso, anche se importanti gratificazioni erano già arrivate con una mostra in Galleria Rossoni. Ma poi, nei primi anni ’60, ripresi intensamente a lavorare con lo spirito di una volta. Pensavo ancora al figurativo ma avvertivo un bisogno di cambiamento, di chiarirmi le idee. Al primo periodo della pittura ad olio seguì un periodo di rinnovamento”.

“Che cosa è successo poi?”

“Carlo Sbisà aveva fondato la scuola di incisione ed io, pur continuando col figurativo, volli sperimentare tecniche nuove, poiché mi si offriva l’opportunità di usare un torchio e di rimettermi in gioco.

Ma la vita in famiglia aveva comunque la precedenza su tutto; si viaggiava parecchio, (mio marito era un uomo di mare!) l’ansia di conoscenza era dentro di noi. Giovani e curiosi del mondo. Io col bimbo in braccio e con quello più grande accanto non rinunciavo al disegno: su un blocco rappresentavo tutto quello che mi colpiva e mio marito, invece, si dedicava alla ricerca fotografica. Tullio aveva scelto la fotografia come io avevo scelto la grafica.

Nei primi anni ‘60 stampavo su lastre di zinco; erano acqueforti, acquetinte…lavoravo con la tecnica della “cera molle”. Mi sono irrimediabilmente rovinata la gola a causa dell’acido nitrico. Ma non sono mai andata da un dottore e anche ora ho eliminato dalla mia vita tutte le medicine.”

S’interrompe per farmi visionare alcuni lavori di quegli anni, anche questi perfettamente archiviati con accuratezza. Eppure continua a dirmi che tutto il passato si fonde nella sua mente. Mi parla delle tecniche di incisione e spiega i procedimenti con naturale chiarezza come se le lastre e il torchio fossero ancora là, a disposizione del suo istinto creativo.

“A metà degli anni ’60 mi piacevano le immagini del nostro Carso e i motivi vegetali presero il sopravvento.”

Si intuisce che con Tullio ha conosciuto bene e amato la laguna di Grado, l’acqua stagnante, gli arbusti, i rami secchi plasmati dalle maree. Nelle sue chine diluite il languore degli ambienti lagunari si fonde con un senso di pace infinita. Anche ciò che in natura presenta asperità, viene da lei trasfigurato in una limpida serena visione del mondo e della vita: “La natura della laguna è una natura povera che si rinnova nelle stagioni ed è compito dell’artista saperla trattenere sui fogli.”

“È stata importante l’esperienza della grafica?”

“Era grande nella grafica la libertà di espressione e di invenzione. Solo con questa tecnica il disegno appariva nella sua essenzialità, a differenza della mia precedente esperienza nell’olio e nelle chine, in cui non traspariva la forza del disegno che veniva tradotto nel colore”.

Mi invita a visionare innumerevoli cartelle dei lavori a china acquarellati: una particolare fusione di elementi architettonici e decorativi, di simboli arcaici riprodotti con sapiente stilizzazione, una tecnica vicina al puntinismo che le permette di riempire spazi che altrimenti rimarrebbero inesplorati e che creano l’effetto di campi musivi. Sono i simboli dei rilievi paleocristiani, svuotati del loro significato religioso, che diventano simboli del perpetuo scorrere del tempo; accanto, pietre di muri sgretolati a dare l’idea dell’incessante lavoro dell’uomo.

“Come si colloca tutto ciò?”

“È la produzione degli anni ‘70/80, un’archeologia di memorie e di invenzione. Nulla di tutto ciò è reale ma è il risultato di ciò che si fonde nella mia mente. Se ci sono dei vuoti bianchi questi sono gli occhi rivolti al vuoto del passato. Mi mettono serenità questi lavori e sono lo stimolo di una ricerca continua. Non posso ripetermi perché la natura dell’uomo risorge e l’opera dell’uomo non può rimanere ferma.”

“Come ha inciso sul tuo lavoro il trascorrere del tempo?”

“Dopo le cosiddette “opere stracciate” degli anni ‘90 e i collage (spiega che rompeva la matrice per dare l’dea di una naturale lacerazione dei bordi del disegno da riprodurre graficamente) sono ritornata all’olio e poi ho avuto il bisogno di raccogliere radici, rami, frammenti di tronchi e di lavorarli, grazie anche all’aiuto di quel caro amico dei vecchi tempi che è Villibossi. Alla mia età è difficile usare il trapano per fissare alla base queste sculture. La natura ti permette di rintracciare l’arte nei luoghi più casuali …”.

L’ingresso della sua casa si presenta, infatti, come uno spazio in allestimento popolato da “reperti” naturali. Ma in realtà la Stravisi li investe di un’interpretazione umanizzante: tre piccoli tronchi vicini non sono altro che una coppia con il loro bambino avvolti dalle radici dell’amore. Appeso al muro, un cardine arrugginito sembra vivere una seconda vita e assumere un valore quasi sacrale.

Sta per terminare la nostra piacevole conversazione quando da una cartella spuntano degli schizzi a china che rappresentano delicati paesaggi, case, tetti dai contorni appena percettibili e poi, con sorpresa, prende forma su alcuni fogli l’espressione informale astratta.

“Lo vedi questo vortice?” E mi spiega che tutto quello è dentro di lei ed è riuscita a dargli corpo attraverso continui procedimenti, con un sapiente uso dell’acqua “che non deve mai invadere certi spazi bianchi… poi quando arriva la notte stendo il foglio bagnato e lo faccio riposare sul tavolo di marmo. Di notte lavoro ancora molto”. Riporta la data 2011.

Mi rendo conto, quindi, che la creatività è un processo continuo, inesauribile a dispetto dell’età e dei suoi ritmi biologici. Nelda Stravisi l’ha coltivata dentro di sé e le ha saputo dar voce costantemente.

“No questi non li esporrò mai, non sono lavori da esposizione!”

Eppure è proprio questa recente ricerca, questo scavo maturato dentro se stessa con imprevedibili esiti dalle tinte oniriche, che ti danno la misura dell’artista e della sua capacità di guardare avanti. Il futuro le appartiene e lo progetta con grande ottimismo e solo nel momento del commiato, dopo avermi prestato un album, mi ricorderà che ho dieci giorni di tempo per meditarci sopra, perché lei potrebbe “sparire da un momento all’altro”.

Lo dice con voce allegra ed io le prometto una rapida restituzione. So che la ritroverò così, ridente, ironica, forte come le radici cui infonde il suo soffio vitale.