SPECIALE SG Verso “sera”

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La casa, i figli, gli «Appunti inutili»

di Luca Zorzenon

 

«[…] tra me e me ho pensato a quello che era stato per voi andare al fronte e ciò che ora proviamo noi, […] gli ideali con i quali voi avete fatto la vostra guerra, vi sono sgusciati di mano e vi siete trovati con le mani vuote in un mondo che, malgrado il vostro sacrificio, non segue più la vostra legge. Noi vogliamo ora andare al fronte senza il senso di saper bene il perché, credo senza nessuna illusione, senza nessun ideale, […] per sentirci tra i nostri compagni […]. Cosa ci resta da fare? Andare contro corrente non ci siamo riusciti gli anni passati, tanto meno ci riuscirebbe ora. Ma ormai non è più possibile stare al bando, stare soli. Resta solo mettersi nella corrente […] e cercare di non perdere la propria dignità.»

 

Scipio Secondo Slataper scrive queste parole al suo ex professore di liceo Giani Stuparich il 26 maggio del 1941, poco prima di partire per il fronte greco. A soli ventisette anni le sue tracce si perdono gli ultimi di gennaio del 1943 durante la tragica ritirata dell’ARMIR: la stessa età del padre quando cade sul Podgora nel 1915. “Scipietto” interroga la storia – di Trieste che riflette il corso drammatico di quella italiana ed europea – nel rapporto tra padri e figli: in poche frasi, un sincero, disincantato esame di coscienza. Padri che seppero avere grandi ideali, che furono capaci di scelte importanti e radicali, di darsi una “legge”, di sacrificarvi la vita. Ma poi anche, nella riflessione di Scipio Secondo, reduci (quelli che tornano) «con le mani vuote». Il mondo che esce dalla guerra, che ha tradito i loro ideali, anche storcendoli e servendosene strumentalmente nella bufera fascista, ha decretato un senso di isolamento e una precoce amarezza nei padri; ma anche, e non meno, la solitudine ideale dei figli-eredi. Scipio Secondo, giovanissimo ingegnere industriale, con la passione per la fisica, ha scartato dalla tradizione letteraria; non dall’onore e dal peso del filo della storia, dalla difficile questione del suo senso.

Non è solo “ricerca del padre”: Scipio Secondo il suo lo conosce solo nei ricordi di famiglia, nell’opera letteraria. È, ancor più, ricerca dell’identità della propria generazione, di figli che si misurano con un sentimento di solitudine, esistenziale non meno che storica, involti un destino che ritorna ma, nella coscienza acuta di “Scipietto”, si ripete ben altrimenti diverso: «Noi vogliamo ora andare al fronte senza il senso di saper bene il perché». Scrive a Stuparich, ma è come se scrivesse al padre. Non noi dobbiamo, ma noi vogliamo ora andare al fronte, scrive Scipio Secondo. Nelle sue parole, quegli ideali, quella legge, «sgusciati di mano» ai padri, non ricadono sui figli come un fallimento da cui trarre una recriminazione generazionale: diventano, trasfigurati, legge dei figli. Impossibile trent’anni dopo continuare a tramandarne i contenuti: dalla “lezione” dei padri si eredita la forma, il volontarismo del sapersi dare ancora una legge; ma nel contempo la legge dei figli è quella di riconoscere di non avere illusioni né ideali: si affronta ancora la guerra (ancora una guerra) «senza il senso di saper bene il perché». Figli che si preparano ad esser padri pure loro e non rinunciano ad affermare una loro legge che sia anche desiderio: ma quanto consapevolmente diversa, in queste brevi e intense parole di Scipio Secondo! Poiché i figli, egli riconosce, sono stati «al bando» e «soli» negli anni del fascismo trionfante: «andare contro corrente non ci siamo riusciti gli anni passati, tanto meno ci riuscirebbe ora». Toccava a loro andarci, più che ai padri-reduci? Occorre spezzare quella solitudine generazionale che è cresciuta nell’assenza di un «perché»: si può dunque «sentirci tra i nostri compagni» gettandosi comunque nella «corrente» della storia, quando ancora una volta una guerra chiama alla prova. Per Scipio Secondo è questa la condizione storica di una generazione che non vuol «perdere la propria dignità», è la risposta al «cosa ci resta da fare?», senza infingimenti consolatori: il voler «mettersi nella corrente» della storia pur «senza nessun ideale» è la legge dei figli, la forma difficile con la quale possono ancora raccordarsi ai padri, assumerne l’eredità. “Scipietto” la riconosce e, trasferito sul fronte russo, scompare combattendo, con queste parole che paiono un testamento, nella tormenta del Don.

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Nell’apprendere della morte di Giulio Camber Barni, Franco Belli Giotti scrive al padre Virgilio: «La morte di Camber mi è stata penosa. Dunque anche gli ultimi del vostro gruppo stanno finendo? […] Dunque ancora un intellettuale del vostro gruppetto è morto. Tutti muoiono e lasceranno a noi un’eredità piuttosto pesante.» Il peso intellettuale della tradizione e del passato, che assume il volto dolce e rassicurante del padre Virgilio, grava su Franco lontano e solo in mezzo ad una guerra che gli sembra non scoppiare mai, lo affatica fino a farlo ripiegare su se stesso, gli fa scrivere al padre che le sue lettere «sono un po’ il suo diario», gli ispira tentativi d’arte in frammenti di prosa onirica e visionaria.

Anche Paolo e Franco Belli Giotti perdono le loro giovani vite all’inizio della controffesiva sovietica, nel dicembre del 1942: Paolo in Russia da mesi e mesi, Franco giunto al fronte da pochi giorni. Virgilio, il padre, ne ha conservato le lettere, pubblicate alcuni anni fa a cura di Anna de Simone: Lettere al padre. Dialogo di Virgilio Giotti con i figli durante la campagna di Russia. Quasi trecento le lettere dei figli. Ventiquattro, al solo Franco, quelle di Virgilio recuperate. Dialogo con i figli che il poeta continua in morte, dal ’46 al ’53, nel suo taccuino degli Appunti inutili.

Di Paolo e Franco, nati rispettivamente nel 1915 (come Scipio Secondo) e nel 1919, Virgilio Giotti legge talora le lettere che riceve dal fronte a Giani Stuparich (il “grande reduce”, un “padre spirituale”) e i due le commentano, anche nelle velleità artistiche della prosa dei due giovani, che al contrario del figlio di Slataper, nei loro interessi per la letteratura, la pittura, la musica vorrebbero proseguire la tradizione culturale dei padri. La guerra di Paolo e Franco è di sola retrovia: in Russia, Paolo; fra Treviso, Padova, Pantelleria, prima ancora che nei pochi giorni sul fronte russo, Franco. Un’attesa lunga di una morte pressoché immediata, forse neppure nel tempo di imbracciare un fucile. Entrambi, più che al fuoco del combattimento, aspiravano a un ruolo da interpreti, data la loro conoscenza della lingua russa.

La guerra di Paolo e Franco è l’occasione di uscita dalla casa, paterna e materna, da quel “mito” della casa (e relative suggestioni pascoliane) che tanta parte ha nello sviluppo della poesia del padre. Un uscire di casa che coincide per entrambi con la loro fine. Per Paolo la guerra in Russia è un viaggio nella terra della madre, Nina Schekotoff; per Franco una situazione da “deserto dei Tartari” e la delusione di un mondo che conosce più vasto ma che non gli placa l’inquietudine e il senso di vuoto e isolamento che gli attraversa l’animo, così da richiedere con insistenza più particolare del fratello il rapporto col padre lontano. Per entrambi un viaggio funesto: non un autentico “partire”, se non alla ricerca della madre e del padre; certo un non ritornare. Percorsi diversi. Nel segno della madre, Paolo; del padre, Franco.

Nelle lettere di Paolo c’è la lunga marcia attraverso la pianura ucraina al seguito delle truppe inviate in prima linea sul Don. Lettere fitte di descrizioni, osservazioni, ritratti umani e del paesaggio: Paolo, aspirante letterato, tenta vie di scrittura fin “espressioniste”: «mi sono tutto isteppito, o isteppato», scrive quando la steppa è tanta da venirgli a noia. Lo sguardo talora si posa sugli scenari di devastazione e di morte che l’avanzata militare lascia alle spalle. «Dopo, tutti andavano a vedere gli uomini bruciati e morti, prigionieri dei carri. Uno, riuscito a sortire, prima di morire è rimasto molto tempo buttato vicino la sua prigione, facendo ogni tanto qualche movimento, dopo un po’ senza scarpe. Una persona pietosa forse avrebbe lì adoperato un colpo di fucile, ma non l’ho fatto e non gli ho detto niente perché non sapevo cosa dirgli. Come quegli uccelli che raccoglieva ogni tanto la mamma feriti o caduti dal nido e che a casa morivano poco dopo.» Paolo non spara: subentra piuttosto, nella scrittura, soccorritrice l’immagine della madre (e della casa) che copre quella visione di morte, la addomestica, la lenisce.

La Russia-madre di Paolo è una terra che ha bisogno di protezione e di riparo: l’ideologia sovietica ne starebbe cancellando l’identità popolare, la cultura, la grande tradizione intellettuale ottocentesca. Una propaganda fascista che sui giovani esercita il suo effetto gli fa credere che la guerra di aggressione abbia risvolti benefici sullo sviluppo moderno del popolo russo: «Quando parlano il loro viso si esprime come recitassero. Come qualche volta ci si sente chiamati dalla natura e dalla vita primitiva, così loro sono chiamati dalla civiltà. Non capiscono però ancora il bene che loro verrà dall’essere riorganizzati socialmente dal popolo tedesco e italiano, popoli di vecchia cultura ma rinnovati dal fascismo, dall’insegnamento di una civiltà tanto superiore alla loro.». Paolo si nutre delle letture di Puskin, di Turgenev, di Dostoevskij, di Tolstoj, ha nella mente l’archetipo della Russia inciso nei racconti della madre, gira per i paesi e i villaggi, entra nelle isbe, parla con le donne negli orti, con i contadini nei campi, traduce dal russo la leggenda popolare del principe Igor, osserva usi e costumi, tradizioni e comportamenti popolari. La guerra di retrovia, fatta di carta e penna, piuttosto che di armi (scrivere a macchina, afferma, è forse la sola cosa che imparerà nell’esercito), a mano a mano gli svela però una Russia diversa: «Alla mamma bisogna dire che la sua Russia esiste solamente relegata in campagna, quella Russia che lei conosce. Ora quale diversità anche nei tipi; russi con la barba non ce ne sono più, contadine in costume lo stesso, gli stessi samovar sono tanto rari. Addio Russia convenzionale! […] Anche la Russia religiosa se ne è andata, i russi moderni non credono più affatto, hanno messo il loro misticismo da altre parti».

Nelle campagne. Ma in città le millenarie radici contadine si intrecciano con la modernità del progresso: «Sono curiosi, spesso dei tipi contadineschi di studenti, medici, donne laureate in elettrotecnica o ingegneria! Un interesse per la cultura enorme, un interesse per tutti i problemi moderni con la vista esteriore da ingenui contadini.» E con intatta ingenuità, con acuto straniamento (ma preziosi in queste e tante consimili sincere osservazioni) Paolo scrive al padre e alla madre: «Vi dirò una cosa che mi sono accorto ormai di pensare con tanta chiarezza e che non vi ho detta, qui è possibile per un intellettuale fare il contadino, non perde nulla, è un mestiere invidiabile che tanto mi piacerebbe fare, e qui non è una cosa insensata pensare di diventare un contadino. Resterebbe il tempo di dipingere.» Messa così in crisi un’idea ancora piccolo-borghese della cultura, Paolo scopre frammenti di una nuova civiltà che in Russia potrebbe nascere, e filtra così il dubbio sul bisogno di soccorso della “superiorità” italo-germanica! Il suo sguardo si posa sulle scene di vita russa in una avidità adolescente di conoscenza sospesa tra il rimpianto libresco del passato che prende figura nell’amore per la madre e la sottile lusinga di una realtà del presente che lo invita pian piano a prenderne adulto congedo.

Qua e là nelle lettere di Paolo, un senso di giovanile smarrimento: «Tante impressioni, discordanti, dolorose che non so più davvero cosa pensare. Ho impressioni vaghe come di aver capito non so quale verità, che non so spiegarmi ancora di quale natura sia, e forse è molto semplice e ovvia.» La terra-madre diviene una volta stellata che mette paura, sguardo sulla bellezza di costellazioni che disorientano: «Ieri ho dormito sotto le stelle e mi è venuta paura che non riuscirò a esprimermi nella vita, che morirò prima. Come bello sarebbe poter attingere come si vuole nel pozzo del subcosciente, in cui si conserva tutto il passato coi colori più vivaci, tirar fuori quello che si vuole e portarlo nel presente. Varrebbe tanto più della desiderata immortalità. Invece si vive saltuariamente, fra svenimenti di coscienza continui, quasi non bastasse il dormire.»

Il «pozzo del subcosciente» materno può imprigionare la vita piuttosto che liberarla, il passato coi suoi «colori più vivaci» non aderisce più in modo naturale ed armonico al presente. Fuori di casa, nella steppa russa, c’è la guerra, c’è la distruzione, gli aerei mitragliano, bombardano. Si chiede Paolo, sentendone il rombo fragoroso: «A cosa somiglia? Manca assolutamente del patetico di qualsiasi azione umana e naturale, è asciutto, meccanico, ci si sente come dei pezzi di legno che vengono segati in una segheria con grande rumore.» Di lì a poco quella “meccanica” da segheria travolgerà anche la sua vita.

 

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Nella lunga attesa di un’azione che mai verrà, Franco scrive al padre di donne e di libri e gli spedisce in lettura frammenti di prove lirico-narrative ancora troppo impastati di dannunzianesimo, o di sgorghi e ingorghi barocchi; Virgilio prova con tatto a farglielo capire, Franco tenta di replicare: «Dici però anche tu cose strane in materia letteraria. Parli di “adagiare il mio lirismo su cose semplici”. Come posso farlo se non sopporto o quasi il mondo della realtà che entusiasmò a suo tempo Zola ed altri e non posso certo, d’altra parte, aspirare ad Angioletti o simili (che a parte la fama sono ancor più meschini e vuoti di me) e in genere la tradizione italiana non mi dice nulla.» Tra Franco e il padre Virgilio il dialogo è all’insegna del letterario, è la figura paterna per Franco (come per Paolo quella della madre) il centro di un confronto che mescola bisogno di vicinanza e di approvazione e necessità dello stacco: il padre poeta, il figlio che aspira a diventarlo. Più introverso e inquieto di Paolo, la lunga permanenza nell’inattività prima dell’invio al fronte accresce in Franco la coscienza del senso di vuoto e noia che lo intride e lo tarla e che nessuna compagnia di giovani commilitoni può attenuare. Spesso anzi li disprezza per la loro ignoranza, li maledice perché lo distraggono dalle sue letture. Descrive al padre senza giri di parole i giovani della piccola borghesia appena usciti dal corso ufficiali: «Non ti parlerò di loro individualmente che non vi sarebbe molto da dire, ma la confusione mentale moderna si specchia caratteristica e disperante. La mancanza di una classe sociale di qualche valore è una triste malattia che sembra inguaribile. E di qui l’equivocità dei rapporti: ora di una severità piena di smorfie (residui putridi di borghesia), ora di un’affabilità sgangherata che non serve a nulla».Verso le donne Franco prova una forte attrazione erotica, e tuttavia è una bellezza che nella realtà sempre gli sfugge e che descrive al padre in brevi frammenti, con studiata, letteraria sensualità, spesso vantando il privilegio di un atteggiamento di superiore distacco. Alla «trentenne mettifoglio, coniugata», col «marito in Affrica», che gli ha messo sopra gli occhi, scrive di aver «disarmata la sua sensualità, l’ho lasciata filtrare lenta in me, come un leggero eccitante». Le donne dei paesi veneti «erano tutte comuni da sposarsi in chiesa e impedivano sogni più vasti». Con quella sulla trentina, che ha «le gambe nude di una leggera animalità balneare», conversa «a voce bassa di futili cose piene di sottintesi (dell’andare in chiesa senza calze) e ho potuto convincermi che non c’è miglior afrodisiaco della chiesa». In un locale di Padova scopre «un interessante fanciulla bionda dall’aspetto ingenuo e depravato insieme da entusiasmare un Degas. C’era una specie di follia dominata nei suoi movimenti silenziosi che mi ha fatto sognare in un muto ritorno in tranvia. È bello invaghirsi di un’ombra e portarsela via in mezzo alla campagna e fare idillico ogni locale per quanto pieno di fracasso».

La guerra-non guerra di Franco, nell’attesa lunga quasi un anno prima di perdere la vita, tra brevi apparizioni femminili, frammenti sparsi di un’educazione sentimentale ed erotica, scorre tutta nel suo rinchiudersi e proteggersi nel rapporto col padre lontano, sotto lo scudo della cultura e dei libri. Le richieste di Franco al padre sono quotidiane, talora ossessive: gli chiede continuamente di inviargli romanzieri e poeti, biografie di musicisti e di pittori, li legge e ne discute per lettera. Virgilio è spesso in affanno (anche economico) nella ricerca di soddisfare il figlio correndo di librerie in biblioteche, si priva di volumi suoi avvertendo Franco di doverli restituire, i pacchi di libri corrono avanti e indietro tra la casa di Trieste e i vari indirizzi militari del figlio lungo la penisola. Come per Paolo la terra russa è ricerca delle origini materne, così donne e libri sono misura e forma della necessità di Franco di non perdere il legame con il padre e la sua protettiva complicità che la guerra rischia di allontanare ed allentare.

Davvero sorprendente, poi, l’analogia con il fratello Paolo nella premonizione della prossima fine: anche in Franco la morte pare venire dal cielo, gli aerei, le stelle, anche per Franco pare calare fatalisticamente con un che di “meccanico”. Nell’ultima delle lettere appena giunto in Russia: «Gli aerei passano alti con un ronzio leggero di zanzara (paiono essere proprio vicini alle stelle). E ascoltando questo ronzio una grande serenità ci prende; forse si allontanerà fino a perdersi nell’umida oscurità o forse diverrà sempre più sonoro e meccanico fino a trasformarsi in un rombo atroce. Che importa?»

 

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«Se gavè pianto, piànzer/ no ste più. Ormai sughèmose/ i oci tuti. Andeghe/ far ‘na carezza a vostra/ mama. Piànzer no’ servi.// Xe morti tanti tanti;/ e papà e mame e fioi,/ tanti, ga pianto e pianzi./ ’Sto qua nassi nel mondo:/ nassi e xe sempre nato.» Virgilio Giotti prosegue dopo la guerra con questi e altri versi ben noti il dialogo con Paolo e Franco che dal fronte non ritornano. La “casa” della Sera di Giotti, da circolo di protezione di un mondo umile, semplice e perciò sentito autentico, diventa una scala affannosa da salire verso una «porta serada», «el cuor me sta per bàter/ Chi sa ogi che cossa/che trovarò? […]» È stata anche l’irruzione violenta della storia dentro le mura di casa a sgretolarne il mito di un mondo di pace e armonia.

Giotti continua a scrivere: Appunti inutili, anche; così li chiama quando mano a mano la lontananza dei figli si fa più fonda, il lutto più vano. Pensando a loro il vecchio padre-poeta ha un grande, vero, vitalissimo rimpianto che è anche un rimorso acuto, sofferto nei sensi: «Lei di trent’anni, e sana, e bella: io invece di sessanta sonati (diciamo la verità: sonatissimi), e malato, oltre che di qualche umiliante disturbo funzionale, di una stanchezza quasi perpetua, invincibile. E in cuore due figli morti: e la loro giovinezza che si querela di continuo con me, che me ne struggo, di non aver avuto quanto le spettava di piaceri, e di quell’uno, bramatissimo, di godere di una donna che si ama.»

Cultura, libri, scrittura sfocano anch’essi di fronte a questa «querela» incessante e tormentosa dei figli nella carne del padre. «Dirò ancora una cosa: ho avuto l’impressione che cercare di significare e precisare con le parole, si turba e distrugge la percezione senza parole dei sentimenti, degli affetti, delle sensazioni. Con il risultato che al posto di quei sentimenti e affetti e sensazioni, che sono la nostra vita, si mettono delle scritture. Delle copie al posto degli originali, e gli originali deturpati o perduti. Il diarista s’affretta a trasformare la propria vita in pezzi di scrittura, e perde la vita. Quante lacrime tardive sono state versate per questa disgrazia dai letterati!».

La sera del vecchio Giotti è anche dentro un sentimento di inutilità: perché e per chi si scrive? È anche nel non aver fatto in tempo a scrivere di tutto questo ai figli, a Paolo e Franco.