Non c’è acqua più fresca

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Giuseppe Battiston rilegge Pasolini per il pubblico della Contrada

di Luisella Pacco

 

A volte l’applauso non basta. A volte, andare a teatro mica si risolve così, nel paio d’ore di una serata, né finisce con un “Bravi!”, per quanto entusiasta e gridato a tutta voce.

A volte, lo spettacolo che si è visto rimane dentro, va oltre, emoziona a lungo, germoglia in altri desideri, fa compiere delle scelte, induce a visitare luoghi, a leggere libri, esplorare. Ed è questo il segno che si è trattato di grande teatro.

Ad esempio, dopo aver visto al Bobbio Non c’è acqua più fresca (Volti, visioni e parole dal Friuli di Pier Paolo Pasolini, a me è venuta voglia di andare a Casarsa, nel borgo tanto amato da Pasolini, paese natale della madre, rifugio dai bombardamenti, meta delle vacanze estive. In sintesi, posto dell’anima, di cui amare ogni cosa, i cortili, i lunghi muri di pietra, la preziosa marginalità del mondo contadino e semplice, la sensualità dei tramonti e dei bagni nell’acqua del Tagliamento, col greto del fiume che solleticava i ragazzi sotto i piedi.

Sono andata al Centro Studi Pier Paolo Pasolini (ubicato nella Casa Colussi, dimora della madre Susanna, e abitazione di Pier Paolo durante il periodo della formazione giovanile) e al cimitero di Casarsa, dove ho sostato davanti alle tombe essenziali del poeta e di sua madre, con la vigorosa pianta d’alloro protettiva alle loro spalle.

È a Casarsa, in un grigio ma benevolo giorno di pioggia leggera, che mi sono resa conto della grandezza dello spettacolo visto al Bobbio che sì, mi aveva autenticamente toccata, ma mi tornava in quel momento ancor più vivo e presente.

Di e con Giuseppe Battiston, pluripremiato e notissimo attore, scritto insieme a Renata Molinari e per la regia di Alfonso Santagata, con le belle musiche di Pietro Sidoti che le suona dal vivo, lo spettacolo prende il titolo dalla celebre poesia Dedica che apriva le Poesie a Casarsa (poi sezione d’apertura de La meglio gioventù):

Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres-cia che tal me paìs.

Fontana di rustic amòur.

È un viaggio, quello di Battiston, alle terre infantili ed intime che appartengono anche a lui (nato a Udine) come a Pasolini, un ritorno struggente e dolcissimo ad un paese di temporali e primule, il paese della gioventù.

“Grazie a tutta quella poesia, scritta o cantata, o sognata, sono stato di nuovo bambino” scrive Battiston, “ho rivisto e visto con occhi nuovi quei luoghi, e anche io attraversando piazze e vie mi sono unito alla sagra del paese, ho cantato e ballato e ho brindato alla vita, e ciò che vorrei fare è trasmettere quelle parole che ho sentito tanto mie, a cui in qualche modo appartengo. Forse non tutte saranno comprensibili, ma sono convinto che il dialetto, ogni dialetto, attraverso la sua musicalità diventi evocativo, anzi, Pasolini sosteneva che quando il dialetto viene utilizzato per esprimere alti concetti e alti sentimenti si fa Lingua, e con i suoi suoni ci entra nell’anima e ci porta altrove”.

Anche Battiston, che ora lo ama e ne restituisce i versi in modo magnifico, ha scoperto tardi Pasolini. Ammette: “La prima volta che lessi le sue poesie in friulano ero un ragazzo, uno studente, le trovai difficili, le lasciai lì… Poi negli anni – come accade spesso con le cose messe da parte o lasciate sul comodino – ritornandoci…”

Già, a Pasolini si deve ritornare, come alle cose che ci sono appartenute senza che le sentissimo, ai momenti che ci hanno determinati senza che lo sapessimo.

Persino chi gli fu perfettamente contemporaneo, ebbe difficoltà a capire la grandezza di Pasolini. Ad alcuni bastava la personalità poliedrica e conturbante, la vena polemica, scandalosa, a render difficile l’empatia. E chi gli nacque molto dopo, ancora più fitto sente il mistero.

Ma Pasolini resta sul comodino, attende.

Il pretesto su cui lo spettacolo si regge è semplice (e perciò perfetto, in questo contesto). Giuseppe Battiston e Pietro Sidoti sono due giovani, Sandro e Rico, che in una piazza di Casarsa allestiscono il palco e le decorazioni per una festa di paese, per uno spetaculut. Mentre lavorano di buona lena, evocano nomi di amici, di donne, di divertimenti vissuti insieme, di tragedie della guerra, di migranti scappati a cercare la fortuna, di tutto il puro e l’impuro del cuore degli ultimi.

E Battiston infila una poesia via l’altra, e Sidoti afferra la chitarra, indossa un berretto e canta, e la scena si muove e si ricrea, si fa amara e si fa allegra, aprendosi magicamente sugli orizzonti, sulla campagna, il fiume. Anche solo sciacquandosi il viso nel secchio, passandosi la mano bagnata sui capelli e restando in silenzio, gli occhi tesi verso le lontananze, Giuseppe Battiston è potente e vero.

La festa da preparare è una vena che s’ingrossa di malinconia.

Per chi ha smarrito i sogni, per chi muore.

 

“Mort par quatro franchi, operajo,

il cuòr, ti te gà odià la tuta

e pers i to più veri sogni.

El jera un fiol che veva sogni,

un fiol blù come la tuta.

Vegnerà el vero Cristo, operajo,

a insegnarte a ver veri sogni.”

 

Per il giovanetto peccatore:

 

“O me donzel! Jo i nas

ta l’odòur che la ploja

a suspira tai pras

di erba viva… I nas

tal spieli da la roja.”

 

Per le tristi domeniche, per il vivere perduto:

 

“Vuei ti vistìssin

la seda e l’amòur.

Vuei a è Domènia

domàn a si mòur.”

 

E per quell’acqua fresca, mitica, che però si fa scura e avversa come lo stesso destino (un rovesciamento in negativo presente ne La nuova gioventù, uscito nel 1975)

 

“Fontana di aga di un paìs no me.

A no è aga pì vecia che tal chel paìs.

Fontana di amòur par nissùn.”

 

Abbiamo perso un Poeta, gridava straziato Moravia al funerale dell’amico.

Eppure, no – lo capisco nel buio della sala e lo comprendo paradossalmente persino davanti alla sua tomba – no, Pasolini non è perduto. Non si perdono i poeti. Non muoiono, i poeti.

Pasolini è come un luogo. Un luogo a cui si torna, e se non ci si è mai stati, si va. Prima o poi ci si va. Uno spettacolo incantevole genuino e toccante come questo, può essere la via.