Nostalghia il film dell’esilio

| | |

di Stefano Crisafulli

 

Non è solo la nostra ‘nostalgia’, quel sentimento di perdita per i propri luoghi natii, unito al desiderio struggente di ritornarci. La ‘nostalghia’ russa è qualcosa di più e di diverso: una sorta di malinconia, di ‘malattia mortale’, come la definì Tarkovskij stesso, dovuta alla compassione verso il dolore e la sofferenza. I due significati, comunque, non si escludono in Nostalghia, uno dei film forse meno apprezzati del grande regista russo Andrej Tarkovskij, eppure degno esempio della sua idea rigorosa di un cinema lontano dal business e dal dejà-vu. Pur non essendo un capolavoro come il precedente Stalker, infatti, la pellicola, uscita nel 1983 e sceneggiata dal regista e da Tonino Guerra, racchiude in sé una densa atmosfera di inquietudine e mistero, senza dubbio dovuta anche ai luoghi scelti per l’ambientazione: Bagno Vignoni e, per l’ultima, suggestiva inquadratura, la cattedrale sconsacrata e senza tetto di San Galgano.

La storia, infatti, si svolge nelle terre toscane vicino a Siena, una ‘zona’ quasi stalkeriana che rende il protagonista, Andrej Gorčakov, allo stesso tempo affascinato dal paesaggio e triste per la lontananza dalla sua madrepatria, la Russia. Andrej (alter ego di Tarkovskij, veramente autoesiliatosi in Italia) è uno scrittore che sta svolgendo una ricerca su un compositore, suo conterraneo, vissuto da quelle parti. Lo accompagna una donna italiana, Eugenia, che rappresenta l’ammirazione ambivalente del regista per il Rinascimento. Gorčakov incontrerà a Bagno Vignoni un uomo, Domenico, considerato folle dagli abitanti e dagli ospiti della struttura termale, che gli fornirà le indicazioni per un rituale da effettuare proprio nella vasca che riempe la piazza del borgo: camminare con una candela accesa da una parte all’altra della vasca svuotata, senza farla spegnere. Al netto della metafora di sapore spiritualistico, vi è nel personaggio ideato da Tarkovskij un sentimento sincero di disgusto verso la follia del mondo, che solo persone marginali o ritenute insane di mente possono percepire e denunciare, di fronte alla passività della maggioranza cosiddetta ‘sana’. Anche con un gesto estremo come quello di Domenico, che nel finale si darà fuoco, per protesta, in piazza Campidoglio a Roma.

La trama, ad ogni modo, è la cosa meno importante per il regista, come precisa in un suo bellissimo libro, Scolpire il tempo: ‘Non mi interessavano il movimento esteriore, l’intrigo, il complesso degli avvenimenti: di queste cose di film in film ho sempre meno bisogno. […] Quello che mi interessa è l’uomo, nel quale è racchiuso l’Universo, e per esprimere l’idea, il senso della vita umana non è assolutamente necessario costruire a sostegno di quest’idea una trama di avvenimenti’. E in effetti, pur suscitando a tratti la sensazione di un film eccessivo e schematico, molte scene ed immagini trasudano una genialità visiva fuori dal comune, come la splendida sequenza onirica del Gorčakov dormiente, nella stanza d’albergo, mentre la pioggia batte sulla finestra, o la scena finale della nevicata nella cattedrale di San Galgano, che contiene il ricordo della casa natale del protagonista, sempre proteso verso un altrove.