Nuove proposte e grandi classici

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A Monfalcone presentato Bukurosh mio nipote, al Rossetti Il maestro e Margherita e Così è (se vi pare), al Bobbio Il fu Mattia Pascal

di Paolo Quazzolo

 

Giunto in finale di tournée al Teatro Comunale di Monfalcone, Bukurosh mio nipote è una sorta di “sequel” del fortunato I suoceri albanesi, commedia presentata un paio di anni fa e accolta dal pubblico italiano con strepitoso successo. È il classico caso di “squadra vincente non si cambia”: stesso autore, stesso regista, stessi personaggi, stessi interpreti. Adottando una formula che spesso si vede al cinema o alla televisione, l’autore Gianni Clementi ha voluto proporre al pubblico una sorta di continuazione della prima fortunata commedia, facendo vedere sul palcoscenico le conseguenze di quanto accaduto nella prima parte della storia. Storia che narra di una tradizionalissima famiglia borghese costretta a gestire una situazione del tutto imprevista: la gravidanza inattesa della figlia finita a letto con un operaio albanese. Celebrate le nozze riparatrici, i genitori, un po’ frastornati, cercano ora di tornare alla quotidianità: ma anche nella seconda parte della storia i protagonisti dovranno fare i conti con una serie di imprevisti ed esilaranti colpi di scena. Tuttavia, secondo la più consueta delle formule, alla fine vi sarà la ricomposizione d’obbligo, proprio grazie alla nascita del nipotino che, rispettando la tradizione albanese, dovrà portare il nome del nonno paterno, Bukurosh appunto. Commedia di pura evasione, Bukurosh mio nipote affronta un tema molto caro alla drammaturgia borghese degli ultimi due secoli, ossia l’ipocrisia di questa classe sociale, cui si aggiunge il tema quanto mai attuale di una società (la nostra) chiusa in se stessa e la necessità di aprirsi verso nuovi orizzonti rappresentati da un mondo (quello albanese) molto diverso, ma che trova nel rispetto delle proprie tradizioni l’elemento più vitale e progressista. Tutti bravi gli interpreti, a partire dai genitori Francesco Pannofino ed Emanuela Rossi (coppia sul palcoscenico e nella vita). Brillante e ben ritmata la regia di Claudio Boccaccini.

Spettacolo di segno opposto, ossia di sicuro impegno intellettuale, è Il maestro e Margherita, tratto dall’omonimo capolavoro narrativo di Bulgakov e andato in scena al Politeama Rossetti con la compagnia del Teatro Stabile dell’Umbria. Ancora una volta si apre l’eterna questione se abbia senso tentare di portare sulla scena i grandi capolavori della letteratura, soprattutto quando questi hanno una struttura anticonvenzionale e particolarmente complessa. E, ancora, ci si chiede se sia necessario, ai fini di una buona comprensione dello spettacolo, conoscere la fonte cui si è ispirato, oppure se sia meglio farsi guidare esclusivamente dalle emozioni suscitate dalla rappresentazione. È un discorso molto lungo, impossibile da affrontare nel giro di poche righe: basti ricordare che entrambe le ipotesi trovano sostenitori convinti. Lo spettacolo che ha visto quale protagonista Michele Riondino è sicuramente un lavoro affascinante, forte di una compagnia affiatata, di un’ottima regia a firma di Andrea Bracco e di uno spazio scenico duttile e inquietante. Resta tuttavia il dubbio – del tutto personale – sulla funzione di tali operazioni, pensate più per una élite di spettatori che non per il grande pubblico, che difficilmente riesce a penetrare compiutamente i contenuti di un lavoro così complesso.

Un grande classico, proposto in modo ineccepibile seppure con qualche intelligente elemento di rivisitazione, è stato Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, proposto al Politeama Rossetti dalla compagnia del Teatro Stabile di Torino. Pur essendo un testo-manifesto della drammaturgia pirandelliana, in anni passati è stato proposto non troppo spesso, forse a causa della sua dimensione corale che elude la presenza di un protagonista assoluto. Un testo, tuttavia, che richiede pur nella coralità la capacità di ritrarre a tutto tondo ogni singolo personaggio della commedia: e la compagnia torinese ha saputo dare vita a tanti piccoli, convincenti ritratti di una borghesia provinciale e orrendamente pettegola, capace di sopraffare con la propria morbosa curiosità la riservatezza e il dolore dei tre protagonisti. Molto bella la graffiante e ironica regia di Filippo Dini, impegnato anche nel ruolo di un Laudisi in sedia a rotelle, e forse per questo ancora più sardonicamente distaccato dalla coralità pettegola degli altri personaggi. Bella l’interpretazione di Maria Paiato nel ruolo di una signora Frola non necessariamente ripiegata su se stessa, ma capace di violente quanto disperate prese di posizione. E altrettanto affascinante l’interpretazione di Andrea Di Casa, un signor Ponza non più composto impiegato, ma uomo rude e a tratti violento. Convincenti le interpretazioni di tutti gli altri attori della compagnia, impegnati a dare vita a delle “maschere” che tragicamente ritraggono le manie e le ossessioni di una società borghese ormai giunta al termine del suo percorso. Tragicità che, in qualche modo, viene evocata dalla stessa scenografia (di Laura Benzi) che nelle sue viarie trasformazioni finisce per avanzarsi sino al proscenio quasi ad evocare, con le sue tre porte e i colonnati, l’antica skenè del teatro greco.

Ancora un altro Pirandello è quello visto al Teatro Bobbio per la stagione della Contrada. Questa volta si tratta di una riduzione da quello che è forse il più celebre romanzo dell’autore siciliano, Il fu Mattia Pascal. Pubblicato nel 1904, il romanzo diede un’improvvisa fama al suo autore, divenendo una delle opere narrative più significative del Novecento italiano ed europeo. È la celebre storia di un uomo, Mattia Pascal, il quale di ritorno da un viaggio, legge sul giornale la notizia della propria morte. Al primo impulso di correre a chiarire l’equivoco, se ne sostituisce un altro che lo conduce ad abbracciare una nuova esistenza. L’idea è quella di fuggire le famose convenzioni borghesi e soprattutto alla gabbia matrimoniale. Ma è tutto inutile: anche nella nuova esistenza dovrà fare i conti con le manie e gli obblighi imposti dalla società borghese, a tal punto che deciderà di riprendersi la sua originaria identità. Troppo tardi: il suo posto accanto alla moglie ormai è stato preso da un altro uomo. Lo spettacolo, coprodotto dalla Contrada con Arca Azzurra Teatro e ABC Produzioni, si basa sulla riscrittura drammaturgica di Guglielmo Ferro (che è anche regista) e di Daniele Pecci, che sulla scena riveste i panni di Mattia Pascal. Un lavoro non semplice che, giocoforza, deve costringere il lavoro narrativo in un unico ambiente scenico (seppure molto duttile), sfrondandolo di parecchi dei suoi molteplici significati. Ne viene fuori un primo atto piuttosto statico dove prevale l’elemento narrativo sull’azione, mentre la seconda parte riesce ad acquistare maggiore vivacità e ritmo scenico. Bravi comunque tutti gli interpreti, spesso impegnati in più ruoli, dai protagonisti Daniele Pecci e Rosario Coppolino, sino a Giovanni Maria Briganti, Maria Rosaria Carli, Vincenzo Volo e i “nostri” Adriano Giraldi, Marzia Postogna e Diana Höbbel.