Oinopolos il mare color del vino

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Storia di un padre e di un figlio in viaggio in moto

 

La scusa ufficiale è la ricerca dell’Opolo di Lissa, il vino che, secondo uno degli allievi triestini di James Joyce, Dario De Tuoni, era uno dei preferiti dello scrittore irlandese durante il suo soggiorno triestino

 

È una klapa, una tipica riunione degli uomini del villaggio in cui si canta e si degusta qualche bicchiere di vino, ma è tutto fuorché uno sguaiato incontro dopolavoro. È solenne, composta, misurata

di Riccardo Cepach

 

Due dita almeno le alzi sempre. Anche se stai entrando in curva proprio allora. Perfino quando sei già in traiettoria e osservi preoccupato, lì avanti, quell’asfalto jugonostalgico che luccica come uno specchio, tanto liscio che pare una trendissima piscina a sfioro che sborda su duecento metri di caduta libera a mare. Quando è è: se incroci un altro motociclista sulla Magistrala, mentre ricami con le ruote il bordo della Dalmazia lungo la strada costiera più bella del pianeta, due dita dalla leva della frizione, almeno quelle le alzi. In segno di saluto a quell’altro te che fa la strada in direzione opposta ma ha negli occhi la tua stessa luce e, sotto la visiera e il fazzolettone, lo stesso sorriso da cartone animato. Perché nessuno è felice come un motociclista in Magistrala, e adesso lo sai anche tu, Matias, che a undici anni sei già della famiglia: di quelli che gli fa male il culo, che non dice una parola da ore, che gli scarichi gli hanno arrostito le gambe, e che tutto questo lo chiama “una gran giornata”.

Ed è in onor tuo, del tuo entusiasmo, del tuo battesimo da biker, che questa storia di un padre e di un figlio in viaggio in moto, che non ha a che fare né con lo zen né con la manutenzione della motocicletta (speriamo), comincia qui, con due dita in alto, su questa curva da cui si vede Spalato e le isole di fronte, e l’ammasso sfilacciato di nuvole bianche che vi si accumulano sopra, come il cumulonembo delle storie e delle coincidenze che, pian piano, ho visto addensarsi in questi mesi, a coprire le rovine di Solona (Solin), nell’entroterra di Spalato (Split), e l’isola di (Lesina) Hvar e quella di Lissa (Vis) e ancora più giù lungo l’Adriatico (Jadransko more) fino all’assolato scoglio di Pelagosa (Palagruža) e alle sue acque profonde. Mare proprio nostrum, Matias, tuo e mio, che queste baie e scogli e porti li chiamiamo un po’ come ci viene, in italiano o in croato, a volte come li leggiamo sulla cartina ma più spesso come li abbiamo imparati, tu da me e io da tuo nonno.

La scusa ufficiale è la ricerca dell’Opolo di Lissa, il vino che, secondo uno degli allievi triestini di James Joyce, Dario De Tuoni, era uno dei preferiti dello scrittore irlandese durante il suo soggiorno triestino: «un vinello bianco traditore che senza salire al cervello mozza però le gambe». E che l’Opolo (e non “Opollo” come scrive De Tuoni) Joyce se lo ricordava bene ce lo dice, solito suo, occultamente e giocosamente in Finnegans wake dove a cercare bene si trovano molte invenzioni lessicali che lo ricordano: Scapolopolos, Apostolopolos, Leonocopolos, giù giù fino a Obstropolos (che forse ha più a che fare col dialettale “stropolo”, tappo) e addirittura all’immaginifico Hopolopocattls dove – giusta l’osservazione dei lessicografi joyciani – il riferimento è sicuramente il vulcano messicano Popocatepetl, ma l’eruzione è alcolica. Solo che di questo benedetto Opolo che si beveva anche alla trattoria “Al Trionfo”, sotto l’arco di Riccardo, non è rimasta traccia nella Trieste di oggi e neanche nei siti Internet, nelle guide e negli opuscoli dedicati ai vini della Dalmazia, che non ne fanno parola, e allora mi è venuta la curiosità di scoprire se esiste ancora, e di assaggiarlo se mi riesce.

Per questo decoriamo con la nostra danza di motociclisti il bordo di questo mare color del vino (oinops nel greco di Omero, ma in joyciano viene oinopolos) puntando a Spalato (Split), dove ci aspetta Srecko Jurisich, studioso appassionato di D’Annunzio (e di Camilleri) oltre che molto giovane (almeno per i parametri italiani) direttore del dipartimento di Italianistica della locale Università. Con Srecko sono anni che, di quando in quando, ci si incontra a qualche convegno in giro per l’Europa dove lui parla di D’Annunzio e io di Svevo. È l’unico accademico che conosco capace di citare David Bowie nelle note a piè di pagina di un serissimo intervento universitario, è molto simpatico e sta scrivendo un romanzo che si intitola Il buco nel mare ed è ambientato (nuvoletta, nuvoletta!) a Lissa. È un romanzo ironico, che raccoglie aneddoti autentici e deliziosi, come quello dell’isolano che, dopo la visita di Greta Garbo alla celebre grotta azzurra dell’isolotto di Biševo, ha raccolto la ghiaia su cui la diva si era seduta per far pagare ai turisti la visita al calco del sedere della donna più bella del mondo. Ma è anche un libro piuttosto serio e preoccupato, che parla di una terra ricchissima di acqua, come Lissa, che interessa gente senza troppi scrupoli; di concessioni trentennali per grandi sorgenti di acqua potabile date a imprese che non le usano, ma le tengono in cassaforte, come una valuta di cui si sa che non può che apprezzarsi; di un capitale comune limpido e trasparente che a poco a poco diventa uno stagno privato, torbido e opaco, sulle cui sponde dovremo inginocchiarci per attingere, a caro prezzo, le poche gocce che ci sono necessarie. Certo, Matias, parla di acqua e non di vino, ma vuoi che uno così non sappia tutto dell’Opolo?

Niente. Non ne so niente. – ci dice subito – E le persone a cui ho chiesto, dopo aver ricevuto la tua e-mail mi hanno detto non è nemmeno un vino: è il nome che danno qui al mosto appena spremuto, che si beve fresco durante la vendemmia per dissetarsi.

Gli dico che non è possibile, che non era certo mosto quello che trasportavano a vela fin lassù, al capolinea dell’Adriatico, per allietare le serate di Joyce. Ci riflette. Concorda.

In tal caso – soggiunge – non ti resta che andare direttamente a Vis (Lissa), attraversare tutta l’isola fino a Komiža (Comisa) e parlare con il mio collega Joško Božanić, linguista, grande appassionato e profondo conoscitore dell’isola e della sua storia. Se non ti aiuta lui, nessuno può.

È per questo, Matias, che in questa luce dorata declinante ci troviamo a osservare incantati la splendida baia di Vis (Lissa, ma qui sto parlando della cittadina) dal ponte alto del traghetto che si avvicina all’attracco lasciando alla sua destra una torre martello, sorella di quella di Sandycove, in Irlanda, dove si apre l’Ulisse (nuvoletta nuvoletta!).

Ti ricordi, Matias, quando arrivando, poco prima di Sebenico (Sibenik), abbiamo accostato la moto alla spalletta del ponte e siamo rimasti a guardare quelli che fanno bungee jumping? Un ragazzo si stagliava sulla piccola piattaforma e, di fronte a quel paesaggio azzurro e bianco e verde, lo abbiamo visto cadere giù verso il pelo dell’acqua, osservando l’elastico che disegnava ghirigori al suo fianco nell’aria immobile finché ha cominciato a tendersi e sembrava non finire più di allungarsi, tanto che tutta la scena pareva al rallentatore. E ti ricordi quando, a un certo punto, poco prima dell’impatto con l’acqua, ha smesso di allungarsi ed è rimasto fermo in sospensione per un instante infinito presente prima di ricominciare a salire mentre tutto intorno si scomponeva in forme nuovamente spezzate e disarmoniche: il corpo, l’elastico, il paesaggio, e l’arco di tensione che per un attimo ci aveva uniti? Ecco, io penso che un viaggio è un po’ così: prima c’è la curiosità, la voglia, poi l’esitazione, l’incertezza, finché a un certo punto ti lasci andare e parti. E poi non devi fare niente. Non puoi fare niente. Se non abbandonarti al viaggio e attendere che l’elastico si allunghi fino alla massima estensione, fino al punto in cui la tua corsa si arresta in un piccolo istante di compimento, se ti va bene, prima che una forza che è il tuo stesso peso comincia a riportarti indietro, alla piattaforma sicura della tua vita di prima.

Penso a questo anche mentre attraversiamo con la visiera alzata questa isola bellissima e quasi incontaminata che fino a poco fa era una base militare ed è ancora piena di avamposti mimetizzati e un porto nascosto, tagliato nella roccia, che sembra una base della Spectre. Dobbiamo arrivare al villaggio di pescatori di Comisa (Komiža), sul lato occidentale dell’isola, prima di cena, finché possiamo ancora sperare di trovare il prof. Božanić a un tavolino del suo bar preferito sul porto. E lì, infatti, veniamo accolti da un franco sorriso che si apre nel mezzo di una barba rigogliosa, rinfrancati con una birra e un succo di frutta e, subito, da un franco saluto in lingua Franca, e quindi ragguagliati da una serie di informazioni fitta fitta sul villaggio, sull’isola, su Tito, sulla grande battaglia navale del 1866 e sulla Gajeta Falkuša, la tradizionale barca da pesca dell’isola che il prof. Božanić stesso ha salvato dalla distruzione e ricostruito in un magnifico esemplare che ora porta alle principali regate storiche del mondo. Joško Božanić è un professore a riposo dell’Università di Spalato ma è soprattutto un grande innamorato e un profondissimo esperto della sua isola, sulla quale ha da poco terminato un poderoso volume che raccoglie tutte le parole e le espressioni idiomatiche del dialetto locale. Sicché è un attimo finire a parlare, tutto insieme, della creatività linguistica di Joyce, dei dialetti dell’Adriatico e della lingua Franca, quello strumento mistilingue, di origine araba ma impastato con tutti gli idiomi del Mediterraneo, che i marinai del mare nostrum, Matias, tutti quelli che alla sera si addormentano ascoltandolo, come noi, hanno usato e in parte ancora usano per comunicare fra di loro. Božanić l’ha studiata a lungo e mi racconta che l’ha usata anche per comporre alcune poesie che… Si interrompe a metà. Guarda l’orologio. Ci propone di accompagnarlo in un posto in cui, se vogliamo, potremo ascoltarne qualche verso e, allo stesso tempo, conoscere qualcuno che, finalmente, ci svelerà il mistero dell’Opolo.

Poco distante entriamo in un lussuoso ristorante da poco rinnovato e veniamo condotti giù per una scala in un sotterraneo che ha le pareti interamente ricoperte di bottiglie di vino e per soffitto una lastra di vetro sopra alla quale i camerieri e i clienti continuano indifferenti ad andare e a venire. Ci troviamo già riuniti una decina di uomini vestiti tutti con una semplice camicia bianca, tutte uguali, che accolgono Božanić con cordialità e gli fanno posto e subito intonano un canto, mentre noi ci accomodiamo un po’ in disparte. È una klapa, una tipica riunione degli uomini del villaggio in cui si canta e si degusta qualche bicchiere di vino, ma è tutto fuorché uno sguaiato incontro dopolavoro. È solenne, composta, misurata. Non c’è pubblico se non quello del tutto inatteso e un po’ attonito rappresentato da noi due, Matias. Non è un’esibizione. È qualcosa che si fa per il piacere di farla, di tener viva una tradizione. A un certo punto il prof. Božanić guadagna il centro della sala e, mentre gli altri lo accompagnano intona una sua poesia dal titolo Navigare necesse est. Versi giocosi e amari che abbiamo saputo immediatamente, una specie di lungo meraviglioso incantesimo che, alla fine, fa così:

 

A more putana

more kanaja

ol kraja taja

ol kraja taja

 

O mar puttana

o mar canaia

da terra taia

da terra taia

 

More stringa

more umora

more karonja

more pokora

 

El mar xe strega

o mar amor

o mar carogna

o mar dolor

 

More je more

more rugo

navigare necesse

vivere

non

 

El mar xe el mar

El mar xe coion

navigare necesse

vivere

non.

 

Quanto sarebbe piaciuta a quella macia di James Joyce questa serata di bel canto, bel, sì, sai, vino, ironia e intreccio di linguaggi? Brindiamo a lui, toccando calici di un bel bianco paglierino che no, non è Opolo, ma è uno dei vanti dell’enologia locale, la celebre (questa sì) Vugava.

E come potrebbe essere Opolo? – mi chiede affabile in un ottimo italiano, dopo che abbiamo brindato, il signor Milan Senjanovic. È il titolare di una piccola azienda vinicola della zona e produce fra l’altro, mi annuncia trionfalmente Božanić, il benedetto vino di Joyce.

Perché non potrebbe? – Chiedo perplesso.

Venga domani alla mia azienda e glielo mostrerò – è la risposta.

Così è fra i filari ordinati della sua vigna, pettinata ordinatamente a favore del vento che qui soffia sempre teso, che finalmente scopro che l’Opolo non è affatto «un vinello bianco traditore che senza salire al cervello mozza però le gambe» come scriveva Dario De Tuoni, ma un rosé.

Né potrebbe essere altrimenti – mi spiega Senjanovic – perché “Opolo” non è il nome di un vitigno, ma è il nome che diamo a questo particolare sistema di vinificare la celebre uva piccola e bluastra della zona, quella che dà il robusto Plavac. Lasciata a macerare molto meno (cinque ore contro cinque giorni) produce questo rosé che qui si è sempre chiamato, appunto, Opolo. Ne gradisce un bicchiere?

E qui, Matias, mi sa che ci fermiamo. La ricerca, il viaggio non si è compiuto, no, ma è finito. Mentre assaporo il vino e ne osservo i riflessi rosati – non dorati! – sullo sfondo intenso e scintillante delle foglie della vite, comincio a sentire l’elastico che tira verso nord, verso casa. E il tuo, mi sa, tira anche da prima e di più. Tempo di tornare. Ma abbiamo ancora tutta una Magistrala da ricamare, per fortuna, e saluti e sorrisi da scambiare con i fratelli motociclisti. Accendiamo il motore e mandiamo a remengo anche l’Opolo. Remengopolos.