Osservazioni di un dirigente

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Una risposta al Ponte rosso e a Roberto Curci a proposito della Galleria Nazionale d’arte antica di Trieste

di Luca Caburlotto

 

L’articolo di Curci che pubblichiamo alle pagine precedenti sollecitava implicitamente delle risposte alle questioni che sollevava in merito alla gestione, alla valorizzazione e alla scarsa visibilità delle collezioni della Galleria nazionale d’arte antica di Trieste ospitata a Palazzo Economo, sede della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia. Abbiamo perciò ritenuto utile interpellare – come persona informata dei fatti – Luca Caburlotto, sia in quanto attualmente direttore del Polo Museale regionale, sia per la sua precedente esperienza triestina, come Soprintendente per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Friuli Venezia Giulia. Abbiamo perciò pensato di prendere contatto con lui, di fargli leggere prima della pubblicazione il testo di Curci e abbiamo ottenuto in risposta la lettera che volentieri pubblichiamo qui di seguito.

 

 

Caro Direttore,

ringraziandoti dell’opportunità che mi porgi di corrispondere all’intervento sulla rubrica Articolo nove, comincio dal raccontarti come il 30 maggio 1775 i padri Mechitaristi, già da tempo presenti a Trieste, ottennero dall’imperatrice Maria Teresa il diploma che concesse il riconoscimento ufficiale al loro ordine con relativi privilegi alla Nazione armena: lo sa il tuo collaboratore, che vi fa cenno.

La città, invece, e temo, che pur celebra di continuo la propria multiculturalità – ma che soffoca la propria storia asburgica facendo della griglia ortogonale delle proprie strade, ivi compreso il borgo voluto da Maria Teresa e l’altro dal figlio Giuseppe, il martirologio toponomastico di cui ha brillantemente scritto alquanti anni fa Fulvio Senardi su Trieste Arte Cultura da te diretta, e che, strabicamente, presa dalla micro-monumentolatria che già la dissemina di statuette da giardino, ora intende sfregiare quel Ponterosso a cui dedichi la rivista con la provincialissima trovata della commemorazione scultorea dedicata all’imperatrice (che, ne son certo, subirà la mordace, lepida e salvifica (auto)ironia triestina che poco più in là ha battezzato il Ponte Curto) – dimentica d’altra parte quel diploma concesso ai sudditi armeni a Trieste da Maria Teresa; e, con esso, la storia di una comunità che, assai copiosa un tempo, tuttavia ancora la abita e che la caratterizza sul colle di San Vito con la chiesa dei Mechitaristi e gli edifici che la contornano. Nella prima sala della mostra ospitata nella notevole Galleria nazionale di Yerevan, campeggia la riproduzione di una stampa ottocentesca della chiesa e del convento di via Giustinelli e un racconto, breve come si addice agli apparati didattici ma meglio esplicitato nel catalogo, della ricca storia degli armeni a Trieste.

Proviamo in breve, per non annoiare, a raccontare ovvero a commentare la storia della raccolta: il cui vulnus originario, se vogliamo, è l’esser nata “senza casa”. Acquistata dallo Stato dal collezionista Pietro Mentasti tra 1955 e 1957 (e non dunque “in pieno governo militare alleato”, come è stato scritto), anche per dare un simbolo nazionale a Trieste appena riassegnata alla giurisdizione italiana, e subito allestita nell’inidonea sede del Castelletto di Miramare, la Galleria viene portata all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso – una volta acquistato il bel palazzo Economo dal Ministero per i beni culturali e ambientali (così si chiamava allora) nella sede lì individuata della Soprintendenza: e lì proprio, ancora, e purtroppo, la cercano di tanto in tanto turisti stranieri dotati di guide non aggiornate, e spiace dir loro che è in deposito: come si è dovuto fare per necessità di spazi d’uffici. Superata una prima ipotesi di portarla nella troppo decentrata sede delle Scuderie di Miramare, la Direzione regionale per i beni e le attività culturali e il Comune di Trieste sottoscrivono l’accordo di portarla a palazzo Carciotti: il 3 gennaio 2011 Il Piccolo, in una lunga intervista al nuovo direttore regionale, intitolava l’intera pagina, nell’aspettativa di questo trasloco, al “nostro piccolo Louvre”, sulla base del riconoscimento in quell’edificio così rappresentativo per qualità e posizione, della perfetta destinazione a eminente luogo della cultura cittadino, non solo per la Galleria; ma riportando altresì i timori del sottoscritto, allora Soprintendente per i beni storici e artistici, sull’effettivo esito. Lo Stato aveva a tal proposito concesso due milioni di euro mediante la società Arcus, a patto che il Comune facesse la sua parte. Trascorsi inutilmente gli anni, la somma è giustamente tornata a Roma.

Nel frattempo, il sottoscritto ha portato la raccolta già nel 2011 a Pavia (Castello visconteo) e a Gorizia (Cassa di Risparmio di Gorizia, con altre opere locali pure in deposito), approfittando tra l’altro, nel distribuire il lavoro di schedatura ai migliori specialisti, per aggiornare anche alcune attribuzioni delle opere. Nient’altro, a questo punto, da segnalare, se non che, previa una manutenzione affidata a una ditta di restauro di Trieste, la raccolta è approdata a Yerevan: non però a caso, ma nel solco delle relazioni culturali con i Paesi dell’Est coltivate da chi scrive fin dal proprio incarico a Trieste, alcuni dei quali, a ritroso dall’Armenia, potrebbero essere nuove sedi della mostra. Sia prova di queste relazioni, tra molte, l’esposizione “Giambattista Tiepolo. Disegni dalle collezioni dei musei civici di Trieste” che, promossa da chi scrive con l’Ambasciata d’Italia in Slovenia e il Comune di Trieste, ha portato due anni fa alla Galleria nazionale di Lubiana settantasette disegni del maestro veneziano appartenenti al Museo Sartorio, con un bel catalogo a corredo, in vendita, per chi vuole, alla libreria slovena di piazza Oberdan.

Posso garantire che il “corrispettivo” di cui parla giustamente l’articolo cui mi affianco sarebbe notevole, magari facendo seguito all’opuscoletto sugli armeni a Trieste molto ben scritto nel 2008 da Michela Messina e Anna Krekic nel 2008 a corredo della mostra sul fotografo Van Leo a San Giusto: e chi scrive ci ha già fatto l’occhio, per esempio (tra altro) su un meraviglioso incisore, narratore della Belle époque parigina, che uno specialista italiano di livello internazionale è pronto ad approfondire. Sarebbe da parlarne, se non fosse che il sottoscritto ha già scritto formalmente quanto inutilmente (e inutilmente incontrato), per promuovere il ricordo di un genio superlativo, conosciuto più per dar il nome alla via di una giustamente nota gelateria che per l’eccezionale impresa che grazie a lui fu inaugurata dall’imperatore Francesco Giuseppe a Trieste il 27 luglio 1857. I lettori del Ponte rosso sanno di chi si tratta.