Padri e figli secondo Gioele Dix

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di Stefano Crisafulli

 

Di nuovo a teatro. Sembra quasi incredibile, eppure, dopo mesi e mesi di chiusura, le porte dei teatri hanno finalmente riaperto i battenti. Compreso il Teatro Comunale di Monfalcone, che sabato 15 e domenica 16 maggio ha ricominciato la stagione della prosa, sospesa nell’autunno scorso, con lo spettacolo di Gioele Dix Vorrei essere figlio di un uomo felice. E non poteva farlo in modo migliore: il monologo dell’attore milanese, basato sui primi quattro canti dell’Odissea, che raccontano della necessità di Telemaco di andare alla ricerca di suo padre (e infatti il sottotitolo dello spettacolo è: L’Odissea del figlio di Ulisse, ovvero come crescere con il padre lontano), mostra un leggero e voluto squilibrio tra la parte comica e di commento ironico ai canti e il lato più riflessivo e ipertestuale, che intreccia paternità letterarie e personali. Perché la vicenda omerica è anche un pretesto per parlare della relazione tra padri e figli e dunque anche del rapporto personale di Gioele Dix con suo padre, morto appena due anni fa. Facendosi aiutare dalle parole dello scrittore Paul Auster, l’attore descrive suo padre come un uomo severo, «che batteva i pugni sul tavolo», ma lo ricorda anche con una certa ammirazione, perché da piccoli i padri ci sembrano sempre degli eroi. Anche se sono eroi distanti, come Ulisse che rimane ben sette anni sull’isola di Ogigia con la dea Calipso, mentre il figlio, Telemaco, lo crede infelice e sperduto per il mondo. Proprio dalle parole di Telemaco, in risposta a una domanda della dea Atena, giunta ad Itaca sotto mentite spoglie (e definita per questo «un Arturo Brachetti dell’Olimpo») per spingerlo a partire alla ricerca del padre, nasce il titolo dello spettacolo.

Ma poi, come già detto, si ride, anche, molto, soprattutto quando Gioele Dix prende il centro della scena ed inizia una esilarante digressione che parte seriamente sul rispetto tra giovani e anziani, per poi divagare sui camerieri ‘di una volta’ e sui ristoranti, mettendo alla berlina gli chef che ‘impiattano’ isole di cibo scarno al centro di piatti decorati con le materie più eterogenee o che presentano all’allibito commensale un ‘tiramisù destrutturato’ e i genitori di bambini iperattivi che non battono ciglio mentre i loro figli devastano il locale. Dalla cattedra colma di libri e fogli, Gioele Dix fa emergere pagine del poeta greco Ghiannis Ritsos e di Milan Kundera, spostandosi sul palco e avendo come scenografia un telo verticale sul quale si stagliano le onde del mare e il sole al tramonto, grazie al disegno luci di Carlo Signorini. Anche le musiche si adattano ai repentini cambi di registro, a cominciare dall’omaggio a un Gaber meno frequentato, con la canzone I borghesi, per finire con l’Eric Clapton di My father’s eyes. Gioele Dix saltella e danza persino, alternando momenti ludici ad una recitazione quasi ieratica, e concludendo il suo monologo tra gli applausi del pubblico. Che è regolarmente distanziato, con mascherina d’ordinanza e soprattutto felice di ritornare a teatro, fosse pure la domenica pomeriggio di un giorno piovoso di maggio.